ca2La mia famiglia vive qui da sessant’anni. Ormai siamo francesi

Gli ismi mai tramontati. Populismo. Qualunquismo. Neonazismo. Comunismo. Il terzo millennio non li ha cancellati, ma solo rimodellati, facendogli calzare addosso vesti diverse. Destra e sinistra rimpiazzano vecchie e più violente ideologie, mettendo al bando eccessi e stermini di odiosi totalitarismi. Resta una qualche scorza, annacquata e riproposta in nuovi cocktail politici, ai quali si è aggiunto il condimento di movimenti dalle sterili capacità, seminascoste dalle chiassose urla ad alto volume nelle piazze e tra i bit del web. La Francia come l’Italia. Come il resto dell’Europa. E, in senso più generale, l’Occidente del mondo, con il terrore di un’immigrazione dietro la quale si celano nuove colpe e responsabilità.

A casa nostra di Lucas Belvaux – al quale si deve il già eccellente e toccante Sarà il mio tipo? uscito con un titolo scriteriato, rispetto all’originale Pas son genre, che, tra l’altro, ha il significato contrario – indaga proprio questi temi attualissimi, ambientati nel nord della Francia, in un contesto tanto desolante quanto bersagliato dall’arrivo di stranieri negli anni Venti del Novecento. Pauline (Emilie Dequenne), una giovane infermiera con due figli e un matrimonio fallito alle spalle, viene reclutata da un partito populista, immagine e somiglianza di vecchi epigoni, dal passato discutibile. E dal refrattario atteggiamento verso gli stranieri. Inizialmente tentenna, poi si convince. Contemporaneamente, incontra un vecchio compagno di scuola, con il quale c’era già stata una certa simpatia che il tempo aveva congelato.

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Tra i due scatta la scintilla del sentimento ma ciò che la protagonista ignora è il passato violento dell’uomo, un ex militante di gruppi neonazisti,  dai quali provenivano pure i dirigenti del partito cui l’infermiera ha deciso di legarsi. La crisi, insomma, è bella e pronta. I politici le confezionano prove dei trascorsi violenti del fidanzato che non rinnega la sua gioventù, ma spiega di essere cambiato. Pauline gli crede a dispetto dell’evidenza, ma l’establishment cerca di convincerla a rinunciare al sentimento per il bene del futuro. Individuale. E della collettività cui essa appartiene. Gli eventi precipitano quando il compagno di Pauline, intimorito dall’intolleranza degli immigrati nei confronti della sua amata, decide di far proteggere la donna da eventuali agguati, coinvolgendo i suoi amici di un tempo nel “pattugliamento”. La situazione degenera e, nonostante lo spontaneo ritiro della giovane candidata dalla competizione elettorale, ogni ricucitura si rivela impossibile.

Belvaux propone dunque il quadro di una società spaccata all’interno e all’esterno. Non si assiste soltanto allo scollamento della comunità verso la politica, ma anche allo sfilacciarsi di un intero paese nelle sue varie ed eterogenee componenti. Le famiglie originarie del Pas de Calais, dove sono ambientate le vicende,  nati e vissuti tra le mura delle loro case. Francesi di seconda o terza generazione, figli o nipoti degli immigrati di un tempo, a caccia di lavoro nelle miniere, che si sentono ormai integrati e si riconoscono nel nuovo passaporto. Nada Belisha, intima di Pauline, è il simbolo di questa condizione e si sente profondamente a disagio per la scelta politica dell’amica, che si è unita a un movimento poco incline all’ospitalità di nuovi venuti. Gli xenofobi, ancora vivi e attivissimi nel proteggere con forza e ogni mezzo le proprie realtà dall’ingresso di stranieri, visti come una minaccia alla pax sociale della comunità. I vecchi comunisti, ritratti nella figura del padre di Pauline, che aborrisce la decisione della figlia di schierarsi politicamente con i suoi nemici di un tempo. Infine la straordinaria somiglianza dei tratti di Marine Le Pen, riconoscibili nella fisionomia della leader del Fronte a cui aderisce Pauline.

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A casa nostra sottolinea dunque tutti i temi più attuali e stringenti di questi ultimi anni, ai quali la Francia ha pagato un tributo altissimo, attraverso le stragi in cui sono culminati sanguinosi attentati che hanno poi superato quei confini, per allargarsi al resto dell’Europa. In questo braccio di ferro tra ultra destra, destra e sinistra è proprio quest’ultima a uscirne a pezzi. Il regista non manca di sottolineare come i movimenti di ispirazione progressista non abbiano saputo fronteggiare le nuove emergenze e, in tema di immigrazione, non abbiano saputo proporre soluzioni convincenti. Ciò ha decretato la fine di quell’ala politica, che sembra dimostrata nei fatti anche dal ritiro di Francois Hollande, rassegnato a uscire dall’Eliseo. La sconfitta della sinistra si coniuga con l’esecrabile violenza delle pattuglie xenofobe e con la crisi della destra, alle prese con la totale mancanza di intellettuali, finiti al secondo posto nel mirino dei bersagli più detestati, dopo l’immigrazione clandestina e indiscriminata. La suadente ma infida cerchia dirigenziale del Fronte che arruola Pauline rivela tutta la sua mancanza di spessore, come nel precedente Sarà il mio tipo? dove, il filosofo che’innamora della protagonista, si rivela uno snob capace solo di disprezzo. Anche in questa prospettiva i due film risultano collegati benché A casa nostra riveli una maggior profondità nelle tematiche affrontate. Non solo la protagonista – Emilie Dequenne, belga come il regista – ma anche un’intera classe intellettuale, fortemente criticabile, esce a pezzi dai fotogrammi di Belvaux, dove la mancanza di un substrato culturale forte sembra rappresentare il terreno più fertile della nascita di populismi ed estremismi, favoriti anche dal deterioramento di una schiera di politici ormai impalpabili. Per apprezzare il film sarebbe un errore cercare di targarne i contenuti come appartenenti all’una o all’altra di nuove o vecchie correnti di pensiero, A casa nostra è lo specchio triste di ciò che siamo oggi. Indipendentemente dai confini geografici o ideologici.

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