thumb_52281_film_film_bigJean Luc Godard in dieci stazioni. Via crucis di un amore che si accompagna a un film – La cinese – e al nascere della contestazione giovanile, agli albori del Sessantotto parigino ed europeo. Il mio Godard, ovvero il “formidabile” nel titolo originale Le redoutable, di Michel Hazanavicius ripercorre con leggerezza e ironia una stagione particolare della vita professionale e umana di un regista che ha impresso una svolta, come icona della Nouvelle vague. Cinema autoreferenziale che incontra la Storia e anticipa gli avvenimenti. La pellicola godardiana esce infatti nel ’67 e anticipa quell’afflato maoista che avrebbe pervaso larga parte del movimento studentesco, alla base degli scontri di piazza. Parallelamente alle vicende rievocate, si dipana anche il racconto del legame sentimentale per la studentessa universitaria Anne, che è anche la protagonista de La cinese. Un’attrazione destinata a tramontare non solo per la differenza d’età fra l’intellettuale del grande schermo e la fanciulla, ma per lo stesso destino che li attende. E, non ultimo, per il carattere non facilissimo dello stesso Godard. Il suo attrito con François Truffaut, altro simbolo imperituro della corrente innovatrice del cinema francese ed europeo, traspare attraverso il disprezzo per quegli affari di cuore che attraversano moltissimi film dell’autore de I 400 colpi, ma fanno parte anche del Redoutable, beffardamente allusivo nei confronti del regista di rottura del ’68 francese.

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Hazanavicius insiste su questo tema, guardando responsabilmente indietro agli ultimi anni Sessanta e sottolineando una crisi di ideali che finisce per mostrare anche le critiche a un personaggio non sempre benvisto. Tutt’altro che amato a tutto tondo. E costretto spesso a uscire tra le urla e i fischi di molti dei collettivi giovanili nei quali Godard prese la parola, ricalcando i temi di contrasto che hanno fatto da sfondo alla vicenda cinematografica, politica e umana del regista, vestito dei panni di Louis Garrel. Il connubio apparentemente indissolubile con la giovane fidanzata (Stacy Martin) finisce per dissolversi come l’iniziale voce fuori campo sembra voler annunciare. Crolla così un “mondo” intero. Quello che investe il lato oscuro del cuore di Godard, come il suo attivismo politico, peraltro discusso. La cinese mostra fra le sue particolarità proprio una sorta di astensione dal giudizio, da parte di Godard, su quella conventicola di universitari – tre ragazzi e due ragazze di ispirazione ideologica maoista radicale – che hanno preso possesso di un appartamento, lasciato libero dai genitori di una di loro. E così, come alla fine de La cinese, i giovani abbandonano l’alloggio, al ritorno dei proprietari, e vedono affievolirsi il loro trasporto politico, altrettanto avviene al Godard di Hazanavicius che si scopre sempre più estraneo perfino a se stesso. E giunge a elaborare una gestione del cast del successivo film in maniera decisamente anti convenzionale.

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Siamo lontanissimi dunque dallo stile dell’autore di All’ultimo respiro e del Disprezzo, capolavori della Nouvelle vague, dei quali si conservano tracce ne Le redoutable, attraverso le frequenti inquadrature che avevano fatto, del Godard prima maniera, uno degli innovatori anche dal versante dello stile e delle tecniche di ripresa. Hazanavicius non le dimentica e cerca di girare un film godardiano pure sotto questo aspetto. Utilizza perfino il contrasto tra positivo e negativo della pellicola, nello scorcio in cui il protagonista entra in crisi nella sua relazione affettiva, che coincide con l’inizio del secondo periodo della sua parabola artistica e la fondazione del gruppo di cineasti intitolato a Dziga Vertov, controverso maestro russo inviso al regime stalinista. Una nuova citazione della vita reale di Godard, intimamente connessa a quel maoismo al quale guardò con simpatia fino al Sessantotto e dal quale poi decise di distaccarsi, dando segnali di freddezza proprio ne La cinese, dove pone l’accento sulla popolarità del “libretto rosso”, ma non riesce a sposare completamente le simpatie dei suoi protagonisti. Il mio Godard è film che si guarda con leggerezza, senza l’accademico approfondimento che un soggetto di questo tenore avrebbe comportato in altri contesti. Il rischio è quello di piacere, in superficialità, allo spettatore che si accontenta di vaghi accenni di approfondimento sulla storia del cinema francese. E al quale è concessa, di tanto in tanto, una risata. Allo stesso tempo, il pericolo è di incontrare la bocciatura severa degli accademici e degli specialisti che potrebbero vedervi invece una trattazione banalizzata di Godard, pur se limitatamente a un anno della sua vita artistica. E non solo.

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