“Suburbicon”, ipocrisia all’americana nel paradiso dei piccoli Trump
Solo quando si diventa grandi si impara quello che è giusto fare…
Il paradiso in terra ha il sapore di un gioco finto. Il colore dell’irrealtà. Un sogno quasi fastidioso che denuncia una delle poche cose in cui l’uomo è maestro. L’ipocrisia. Suburbicon, immaginaria cittadina dell’America perbenista del secondo dopoguerra, non esiste sulle cartine geografiche ma ha i contorni di tanti villaggi nei quali pace sociale e tolleranza sembrano essere le sole padrone. Eppure. Eppure basta poco, anzi pochissimo, per mettere a nudo carenze e smagliature di un tessuto cittadino inquieto. Cementato dall’odio e verniciato di invidia. Costruito sul ricatto e annaffiato dal sangue. Non è oro ciò che sempre luccica, anche se sono scuole, ospedali, trasporti. Welfare, insomma. Trionfo di bugia e menzogna. Smascherate dall’improvvido arrivo di una famiglia nera in quell’eden da caramellaio distratto. Perché negli Stati Uniti tutto comincia sempre dal colore della pelle. E Suburbicon non fa eccezione alla regola. I Meyers approdano in pace in una villetta monofamiliare con giardino in cui si annusa la felicità, ma si scopre che è un bagliore nel sole. Cioè il nulla. Tra gli abitanti scoppia un finimondo targato diffidenza. E l’insurrezione è dietro l’angolo. L’esplosione razzista è però il dito che indica la luna, ammirato dagli stolti al posto del satellite. Dietro l’apparenza vive infatti la sostanza di una famiglia esteriormente idilliaca, attraversata in realtà da rancori e contrasti. La moglie (Julianne Moore), semiparalizzata in un incidente di cui non ha smesso di dare la colpa al marito Gardner (Matt Damon) ha una gemella superficiale e farfallina. Un figlio ingenuo e innocente. Un uomo sempre in preda alla paura con il sogno di fuggire. La famigliola, taglieggiata da due criminali e da un ispettore assicurativo (Oscar Isaac) senza scrupoli, assiste alla morte della donna dopo una rapina e al concatenarsi di sanguinose vicende che mettono in rilievo tutti i lati più oscuri di questi caratteri deboli e in larga parte ottusi. A salvarsi da un gioco al massacro che semina vittime senza parsimonia saranno soltanto falsità e ipocrisia.
Suburbicon di George Clooney vive su una storia scritta e sceneggiata da Joel ed Ethan Coen nel 1999 e, da allora, rimasta colpevolmente nel cassetto. Clooney solo ora l’ha rispolverata e tradotta in un ottimo film, tuttavia la mano decisa e decisiva della coppia dei due fratelli è evidente sia dal punto di vista formale sia narrativo. L’attore, premio Oscar per Syriana, e ora anche regista (Monuments men) dimostra di aver tenuto fede molto più che a un semplice intreccio nato dalla genialità dei Coen. Non a caso sono tantissimi i richiami alla loro filmografia, citazioni autoreferenziali, se vogliamo perché, a ogni fotogramma, Suburbicon appare più opera dell’affiatatissima coppia che non dello stesso Clooney. Gli estremi climatici dell’assolata cittadina ricordano corrispondenti esasperazioni che hanno attraversato Fargo, ambientato invece in un gelo totale che accompagnava la freddissima trama e l’algida insensibilità dei protagonisti. Stavolta invece il caldo si coniuga all’ipocrisia dell’idillico paese americano che sembra avvolto da un tepore umano per poi mostrarne invece il suo doppio volto. E non è nemmeno un caso se il duo di criminali che tengono sotto scacco la famiglia di Suburbicon siano un’emanazione dei delinquenti di Fargo, interpretati da Steve Buscemi e Peter Stormare. Si noti poi che entrambi i film hanno per titolo i nomi di due cittadine, benché l’una sia inventata e modellata sullo stile di Fullerton in Pennsylvania ma l’altra si trovi nel Sud Dakota. Le analogie continuano con la rassomiglianza che unisce Glenn Fleshler, il delinquente di Clooney Ira Sloan, con Emmet Walsh che ricopre un ruolo analogo, benché sotto le mentite vesti di un investigatore privato, in Blood Simple dei Coen. Le affinità nono tanto nella fisionomia dei volti quanto in quella del fisico e dell’atteggiamento dei personaggi. Magistrale la scena della colluttazione tra uno dei banditi e lo zio, girata in soggettiva con gli occhi del bambino nascosto sotto il proprio letto per sottrarsi alla violenza. Anche in questo caso, la firma dei Coen appare evidente e ricorda un altro dettaglio di Blood simple in cui la protagonista (Francis Mc Dormand, moglie di Joel Coen) vede la mano dell’assassino spuntare nel locale dove si è asserragliata per fuggire alla violenza. Anche il posizionamento della macchina da presa è attento e le ottiche deformanti che ingrandiscono alcuni personaggi come Ira Sloan o schiacciano Matt Damon a indicarne la debolezza sono tipici della filmografia dei due fratelli. Gli spargimenti di sangue, infine, sono una sorta di marchio di fabbrica dei Coen che hanno intinto spesso la penna per le loro sceneggiature nel plasma (finto) dei loro protagonisti. va sottolineato però che in tutti – e anche in quelli di Suburbicon – l’intento non è quello di dare libero sfogo a horror, splatter e quanto gravita nell’orbita del trash, ma all’abiezione cui è in grado di giungere l’uomo. Abilità del cinema post moderno targato Coen.
Suburbicon esce in un momento particolare della storia americana e, a suo modo, è interpretabile come un attacco diretto alla presidenza Trump. La classe media americana, intransigente e anti razzista è rappresentata a tinte forti ma a scorgere nel razzismo contro i neri la sua cifra distintiva sarebbe un errore. I Meyers altro non sono se non la simbologia dei nuovi venuti. Stranieri, immigrati, clandestini, profughi soprattutto di quelle nazioni entrate nella lista nera della Casa Bianca. Una categoria piuttosto ampia contro la quale Trump sta facendo muro ricorrendo a provvedimenti severissimi. Nel film c’è traccia di tutto questo nella rivolta dei concittadini contro la famiglia di nuovi venuti. L’astio e l’intolleranza sono gli stessi di larga parte degli americani protetti da Trump e grandi elettori di un presidente che – stando alle dichiarazioni ufficiali – sarebbe stato votato espressamente solo da Clint Eastwood oltre che da se stesso. Ebbene quella middle class che si ribella all’arrivo di estranei nel loro paese sono una comunità che nasconde più miserie delle lusinghe che sappia esercitare. Ad essa appartiene infatti il protagonista, un debole che non è capace nemmeno di educare il suo bambino e ripete ossessivamente – prima alla moglie, poi alla gemella di questa di cui s’innamora e infine al bambino – la sua proposta di fuggire insieme per andare a vivere in un luogo tranquillo ai Caraibi. È il tema della fuga e della vigliaccheria di un uomo che non ha idea della compagnia desiderata purché ci sia qualcuno disposto a “evadere” insieme a lui. In questa prospettiva, moglie, cognata o il bambino pari sono. Il teorema dell’ipocrisia e della falsità trova poi il suggello più evidente nelle scene in cui l’intolleranza arriva al massimo dell’intensità con l’assedio alla casa dei Meyers che nasconde il vero dramma, consumatosi invece nella casa dei loro vicini dove si stanno compiendo omicidi in nome di furti, ricatti e tangenti, ma nessuno sembra accorgersene. È sicuramente prestissimo e prematuro azzardare che Clooney stia pensando a candidarsi a una delle prossime presidenziali negli anni Venti o Trenta, ma l’atto d’accusa all’attuale gestione sembra fin troppo evidente.
IL RETROSCENA – Julianne Moore, premio Oscar per Still Alice, riveste il doppio ruolo delle sorelle gemelle Rose e Margaret, moglie e cognata di Gardner Lodge, interpretato da Matt Damon. Non è la prima volta che l’attrice gira in un doppio ruolo e il regista George Clooney non si era lasciato scappare il particolare, ammirando la Moore alle prese con due gemelle in una soap opera della televisione americana.
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