6Ora vi posso davvero chiamare fratelli. Siete diventati tutti dei gran figli di…

 

Un imprenditore condannato per evasione fiscale e assegnato ai servizi sociali. Dubbi… E invece si chiama Numa Tempesta, ha un accento romanesco, fa il finanziere e non è mai sceso in campo. L’unico terreno che conosce è quello del Kazakistan dove è deciso a far crescere addirittura una città. Ma siccome i suoi mezzi non sono sempre limpidissimi, finisce nel ciclone e si salva prestando la propria collaborazione in un istituto che ospita poveri e diseredati di varie età, sesso e provenienza. L’approccio è difficoltoso, ma ogni asperità si appiana quando il facoltoso magnate mette mano al portafogli e rende più semplice la vita di quei disgraziati. Non sarà tuttavia una carità fine a se stessa, ma il tentativo di accendere una capacità imprenditoriale in quella banda di sbandati. Tutto è male quel che finisce male e, dietro l’apparente appianamento di tanti problemi, si nasconde invece il cristallizzarsi di un malvezzo tipicamente italiano, quello di arrangiarsi senza mai davvero sciogliere i nodi. Io sono Tempesta di Daniele Luchetti si ispira all’esperienza trascorsa da Silvio Berlusconi nel periodo del suo affidamento ai servizi sociali, per espressa ammissione del regista. Non si pensi però che il film sia uno dei molti e rinnovati tentativi di ricamare  sulle vicende – giudiziarie e non solo – dell’ex premier. Una parte consistente della trama non ha nulla in comune con il leader di Forza Italia e molti personaggi gli sono totalmente estranei. Ad esempio, il padre del protagonista di cui quest’ultimo è succube fin da bambino e che si rivela invece un criminale. Al contrario, qualche riferimento sembra invece ricollegarsi – almeno idealmente – a Stefano Ricucci, imprenditore romano più volte finito nei guai e in qualche caso assolto.

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Il gioco dei riconoscimenti insomma è aperto, ma limitarsi a questo sarebbe superficiale perché l’opera di Luchetti tende a sottolineare temi a lui familiari. In Io sono Tempesta, come già in altri titoli, viene rappresentato un mondo in cui si riesce a distinguere faticosamente i buoni dai cattivi. I primi si confondono nei secondi nella stessa misura in cui è valida anche la relazione inversa. Se il finanziere (Marco Giallini) è il malvagio per definizione, un cinico che poco si interessa di chi soffre e non esita a deridere i non abbienti e addirittura a sfruttarli, si trasforma in persona dal volto mite quando cerca di aprirsi un varco nella loro stima e nei loro cuori distribuendo loro del denaro, invitandoli a ripresentarsi da lui con una somma in crescita rispetto a quanto ricevuto. Al contrario i miseri, che sembrano senza peccato sono i primi a inventare trucchi. E pilotano il fallimento di uno di loro per spartirsi la sua somma e far risultare in guadagno tutti gli altri. Truffa genera truffa e il teorema è chiaro. Non è il finanziere a redimersi e diventare buono emendando le sue colpe fiscali, ma sono gli sbandati ad allontanarsi dalla strada della povertà abbracciando quella dei mezzucci e dell’inganno. Non c’è dunque un miglioramento o un livellamento nell’alto ma un appiattimento verso il basso. E questa tendenza viene confermata in un finale soltanto apparentemente ottimista.

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Il Bingo aperto da Bruno (Elio Germano), il ragazzo-padre in condizioni a dir poco precarie con un figlio decisamente in gamba, è in realtà una trappola per altri disgraziati che si rifugiano nel gioco per affogare dispiaceri e trovare una via d’uscita, naturalmente preclusa loro da un vizio che può solo farli precipitare in una futura indigenza. Gli ex miseri, insomma, si riscattano creando altre nuove povertà. Io sono Tempesta, come si vede, parte da uno spunto per allargarsi a un universo differente. “Dalla vicenda di Berlusconi abbiamo preso soltanto l’idea iniziale, perché siamo rimasti incuriositi da quella sentenza. Sarebbe stato ingiusto, fragile e impossibile però incentrare tutta la trama su quel personaggio specifico. E poi, diciamocelo, quell’unico spunto avrebbe annoiato”. Così è nato un film che, in molti fotogrammi, ricorda titoli fin troppo celebri del passato. Nella fattispecie Boccuccia, l’uomo sulla carrozzella nella squadra dei poveracci, ricorda da vicino uno dei caratteristi indimenticabili di casa nostra, quel Capannelle interpretato da Carlo Pisacane ne I soliti ignoti diretto da Mario Monicelli nel ’58. Oltre alla recitazione, anche la fisionomia del volto sembra farlo rivivere a più di mezzo secolo di distanza. Farsa sociale sul potere della ricchezza, Io sono Tempesta ha il difetto di non apparire granché fantasioso né innovativo. Nella mediocrità della nostra commedia brilla come un diamante, grazie alla scelta di un intreccio articolato che in qualche caso strappa anche un’ingenua allegria. Non entrerà nella storia però come l’eccellente opera di Monicelli.

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