“First man”, l’universo infinito e il mondo chiuso di Armstrong
Dietro la celebre frase che accompagnò i primi passi di Neil Armstrong sulla luna, da allora rimasta proverbiale, si nascondeva il carattere chiuso e introverso di un padre, impermeabile perfino alla famiglia. Freddo. Razionale. Terribilmente solo, perfino in mezzo alle moltitudini. First man di Damien Chazelle, al quale si devono gli splendidi Whiplash e La la land, è il racconto biografico della vita dell’uomo che per primo mise piede sul satellite della terra. Ne esce un quadro per molti versi sconcertante e sorprendente che permette di conoscere più da vicino l’astronauta. Il genitore. Il marito. Il regista ha lavorato molto in profondità sulla scorta dell’autobiografia dello stesso Armstrong, morto nell’agosto 2012 a 82 anni, che ha lo stesso titolo del film. In essa il capo della missione di Apollo 11 ha raccontato se stesso in pagine che sono diventate la fonte primaria di questo film che si distacca completamente dal resto della produzione di Chazelle. Un film drammatico, un musical e ora un biopic che lascia esterrefatti per le riprese dello spazio, mentre appare perfino cronistico nel rigore con cui vengono descritti i preparativi e perfino l’uomo nella sua declinazione scientifica e in quella umana. First man narra la vita dell’astronauta dalle primi missioni del programma Gemini fino alla sua designazione come primo pilota di Apollo 11. Uno spaccato di vita e scienza con i particolari più crudi della storia delle missioni spaziali che ha annoverato anche molte tragedie. Fra queste, la morte del terzetto che nel gennaio 1967 perse la vita per un incendio nell’abitacolo durante un collaudo.
Non solo il professionista. Dal film esce il quadro dell’uomo Armstrong, che mai si era ripreso dalla sciagura della figlia, morta per malattia in tenerissima età. Un dolore che segnò profondamente quel padre, restituendo alla moglie e ai due figli maschi rimasti una persona impenetrabile. E colpisce l’intensità drammatica della scena in cui la moglie – alla vigilia della partenza per la spedizione che lo avrebbe condotto sulla luna e nella storia – obbliga il marito ad affrontare i due bambini per avvertirli che il loro papà sta per andare nello spazio da cui avrebbe rischiato di non poter più tornare. “Non voglio essere io a dirglielo, devi affrontare le tue responsabilità” lo attaccherà la donna che sognava un uomo nella norma ma ne sposò uno straordinario. E fortemente commovente è quella breve passeggiata sulla luna, durante la quale Armstrong restituisce all’universo e alla materia l’unico ricordo di quella bambina che un destino atroce gli aveva sottratto. Una collanina, inghiottita dalle tenebre e dal cosmo, dove forse quel padre immagina che navighi libera l’anima della sua bambina. Sono attimi di grandissima intensità in un film che regala pochissime emozioni. Il cuore non palpita nemmeno al ricordo di quella magica notte in cui tutto il mondo aveva lo sguardo fisso al televisore per condividere la magia di un uomo che scendeva sulla luna per la prima volta nella storia del mondo e della civiltà.
È il rapporto tra due sfere opposte che sembrano incontrarsi e avvolgersi. L’infinità dell’universo in rapporto al carattere della persona più chiusa e introversa che si potesse trovare. Due segni opposti che si sono attratti e integrati alla perfezione. Il cosmo non ha vinto sull’uomo e l’uomo ha lasciato una piccola parte di sé su un altro pianeta, dopo che soltanto la fantascienza era riuscita a ipotizzare forme di realtà equivalenti. In mezzo a tanto grandi questioni su cui filosofia, politica, teologia e fisica potrebbero interrogarsi senza finire di approfondire le loro riflessioni si rimpicciolisce la statura dell’attore che interpreta Armstrong. Ryan Gosling, già eccellente protagonista di La la land appare risucchiato nel ruolo e nello spessore di uno degli uomini che resteranno indimenticati e indimenticabili nei destini universali. Tuttavia ben poco interessa lo spessore e la statura attoriale, in tutti i casi superata dalla grandezza di una vicenda che offre a Chazelle la possibilità di dimostrare il proprio eclettismo e la sua versatilità. Tre film – escluso l’esordio con la sua tesi di laurea – completamente diversi l’uno dall’altro a sottolineare le indiscusse capacità di regista che ne fanno – a 34 anni da compiere a gennaio – uno dei talenti migliori del futuro cinema americano. Premiato con l’Oscar alla regia nel 2018, con ogni probabilità replicherà nella prossima edizione. First man ha tutte le credenziali per aggiudicarsi le cosiddette statuette tecniche che fanno numero anche se poca scena. Ma per i produttori sarà ugualmente festa.
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