“Summer”, l’estate del rock sovietico che voleva sbranare i muri
Unione sovietica invisibile, nascosta dietro sette note e una chitarra. Il bunker brezneviano che custodiva l’odio ideologico per il nemico americano proibiva l’approdo delle nuove mode e delle tendenze giovanili. Erano gli anni Ottanta e sapevano di sogni e illusioni. La musica placava a malapena la sete di successo di ragazzi che allungavano le mani per rincorrere una libertà in fuga con le zampe della speranza. Testi a brandelli tra frasi inebriate e ambizioni irraggiungibili. Fisionomia di una chimera irreprensibile. Oltre. Oltre il colore che dipinge l’onirico incanto almeno lì, dove nessuno può rubare la gioia di sentirsi vivo in una nazione in coma. Summer di Kirill Serebrennikov è il racconto di un’emozione lanciata al cielo dalla chitarra del povero. Dalla batteria del disperato. Dal canto del sognatore. Leningrado è un nome vecchio come allora era vecchio quello di San Pietroburgo. Comunque la si voglia chiamare, era un’estate dei primi anni Ottanta e un gruppo di innocenti aveva deciso di vivere in un mondo che non fosse reale. Voleva le mode, soprattutto nelle canzoni. Ne produceva di proprie, intonando quei brani rock che avevano il profumo di liberazione ma venivano interpretati come una dichiarazione d’amore al nemico. Tra la banana dei Velvet underground e le liriche di Lou Reed. E l’odio può spesso più del bene se si pensa che oggi, a quasi quarant’anni da quell’estate e da quelle mentalità, il regista controcorrente del film, nella Russia di Putin, è agli arresti domiciliari dall’estate 2017. Anelito libero sempre strangolato.
Viktor Tsoj. Mike Naumenko. Nomi che nulla dicono a un Occidente che da sempre lancia al cielo voci di melodia. Mike ama Natasha, una ragazza con lunghi capelli di poesia. Lei gli dona un bambino, ma sorride a Viktor, caucasici lineamenti di un passato orientale, perpetuati in un presente che litiga con quegli occhi a mandorla dal passaporto sovietico. Poi un bacio. Patteggiato con quel marito che ha orecchie solo per la musica e due braccia che non abbracciano mai il fantolino ma sempre il corpo nudo della chitarra. Gli occhiali neri, che indossa anche al buio, sono forse per non vedere il grigio di una Leningrado preda dei soviet. Natasha contesa. Fra notti di note e letti di lacrime sospese. Capisce tutto, la donna. E interrompe quel vagheggiamento per non deturpare un sentimento scintillante. Presenta un’amica all’asiatico Viktor e tiene l’europeo Mike fra le sue braccia. Summer non è una storia d’amore. È un’avventura in musica che racconta di una guerra troppo fredda per essere combattuta con le armi. Di mezzo, ci sono solo i sogni. Strozzati dal retro conservatorismo bolscevico. O quello che ne resta. Il film è costruito su tre linguaggi che incrociano il presente all’immaginazione. Ed entrambe alla speranza di un futuro vero che ha i colori della quotidianità felice. Agognata e mai raggiunta. L’hic et nunc ha il grigio degli anni Ottanta oltre cortina. L’illusione ha il brio simpatico di un’animazione che racconta quello che non è mai accaduto. Pubblici litigi e concerti trasformati in baraonde senza regole. Balli improvvisati e amori in gestazione.
I tre momenti si alternano in un gioco di oscillazioni che mescolano realtà e interiorità. Traguardi a portata di mano. Il rock è il progresso. L’Occidente filtrato attraverso le copertine degli ellepì dei Beatles. Dylan. Blondie. E gli altri. Giorni comuni per i ragazzi di tutto il mondo tranne quelli esclusi dai muri. Veri o aleatori. Comunque. Muri. La storia finisce sull’uscio di un teatro. Dove si può cantare ma non si può sognare. Dove composti battimani, bacchettati dalle sentinelle del nulla, stridono con le urla dell’Ovest. Viktor e Mike sono poveri. Ma hanno l’animo mite. Fumo e alcol servono per sentirsi vivi. Esserci. E quando a uno manca la chitarra elettrica perché non ha soldi, l’altro offre la propria. Solidarietà dell’incompreso. Il grigio regna sovrano in un universo sbocconcellato. Assaggiato. Morso. Ma mai gustato. Summer è uno spaccato di Guerra Fredda narrato dalle note di una speranza abortita, che ritorna minacciosa e malata ad affrontare un presente con l’odore del marcio. E di anni gettati invano. A Cannes, dove è stato presentato a maggio 2018, in platea c’erano tutti e una poltrona vuota. Quella di Serebrennikov, blindato nella gabbia della sua casa nella Russia post comunista. Post brezneviana. Post e basta. E non c’erano nemmeno Viktor Tsoj e Mike Naumenko. Loro sono morti giovani. Negli anni Novanta. Come i miti. Come piace agli dei. Il primo in un incidente stradale a 28 anni. L’amico per un’emorragia cerebrale. Da voci non confermate, sembra che il male – da qualcuno attribuito ai postumi di un alcolismo accanito che gli aveva fatto perdere anche Natasha e il figlio – sia stata la conseguenza dell’assalto di un gruppo di rapinatori che lo avevano aggredito prima di svuotargli l’appartamento. L’ambulanza non arrivò in tempo utile. Aveva 36 anni. La storia dei loro gruppi – i Kino e gli Zoopark che fecero la storia del rock russo – finì con loro. L’angoscia del loro sogno strozzato vive tuttora.
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