ma3Il dolore è il nostro combustibile, ci ricorda quanto siamo forti.

 

Benvenuti a Marwen, una località che non esiste. A crearla non è stata la fantasia ma un incidente. O meglio, un pestaggio indiscriminato. E la storia è una favola postmoderna in cui Cappuccetto rosso è un maschietto e si ubriaca fino a stordirsi. Il bosco è il conflitto mondiale che un nonno ha raccontato nei suoi ricordi di reduce e il protagonista ha vissuto negli anni Settanta come figlio della guerra fredda mentre il lupo è il branco. Quello che assale a tradimento e lascia sul selciato un corpo morto senza destino. Apparente. Perché non sempre la fiaba è incantesimo. Benvenuti a Marwen è l’ultima fatica di Robert Zemeckis, indimenticabile autore di Forrest Gump Chi ha incastrato Roger Rabbit in una filmografia di titoli eccellenti e non nasce dall’intuizione di un talento, ma da un caso di vita vissuta. Quello di Mark Hogencamp, poco dedito agli studi ma matita abilissima nel disegno fino a quella tragica sera di aprile del Duemila. Il suo matrimonio era durato poco e l’unica strada per smaltire il dolore gli parve l’alcol. A un conoscente occasionale confessò quello che mai a nessuno aveva rivelato fino ad allora. Un segreto. Forse un vezzo. Lontanissimo da inimmaginabili tendenze. Gli piaceva indossare scarpe da donna. E tanto bastò, nell’America che un anno dopo avrebbe conosciuto il dramma delle Twin towers, a innescare la perfida follia di una gang azionata da quell’ignoto compagno di bevute. Mark, completamente ubriaco, fu picchiato selvaggiamente e lasciato a terra dagli aggressori, convinti che fosse ormai senza vita. A soccorrerlo fu un passante ma da quel giorno Hogencamp non fu più lui. Dalla lunga degenza uscì con danni cerebrali irreversibili e perse completamente la memoria. Ricordava la sua famiglia ma aveva cancellato totalmente la propria vita adulta.

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Ciò che accadde da allora in avanti lo racconta fin troppo bene il film. “Hogie” come la stessa vittima si era ribattezzata, reagì costruendo una realtà parallela nella quale si era rifugiato. Con quello che trovava aveva costruito pupazzi e case dando vita a Marwencol, paese d’invenzione nel quale aveva un ruolo anche lui stesso. E dove non c’erano i cattivi del mondo reale ma le donne dei suoi sogni, quelle che aveva conosciuto e amato. La vita vissuta entrava nella dimensione astratta. Era. Astrazione. Mark, l’uomo che aveva smesso di bere pagando il prezzo più alto, ora si divertiva a fotografare le gesta dei suoi modellini. Le finte guerre. Gli amori. E famme fatale che difendevano il suo simulacro dagli attacchi degli sconosciuti. Un transfer. La sua storia è emersa solo cinque anni dopo quella tragica sera. Un fotografo, David Naugle, lo vide camminare lungo la route 213 a nord di New York, trascinando una jeep con i suoi personaggi più cari. Fece amicizia con quel bizzarro tipo e Hogie lo prese per mano trascinandolo nel suo universo fantastico. Vide gli scatti che simulavano quelle strane avventure e, con il permesso dell’autore, li mostrò a un giornale locale. In breve la storia di Mark Hogencamp ha fatto il giro degli Stati Uniti, diventando un libro, una mostra e un docufilm che ha vinto 25 premi. Oggi Hogie ha 56 anni, continua la terapia e la vita ultraterrena in quel di Marwencol, un nome che sintetizza l’ultima passione femminile di quell’uomo mite che la sorte ha respinto.

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Benvenuti a Marwen è un viaggio nei ricordi e, a suo modo, un sogno raccontato da Zemeckis con la disincantata leggerezza che contraddistingue molte sue opere del passato. Hogencamp potrebbe essere un Forrest Gump della memoria, un personaggio che appartiene a un universo di confine, da lui stesso plasmato a propria immagine e somiglianza. I palpiti dei giorni sono i propri stessi palpiti. Le ambizioni e le speranze. I desideri e l’avvenire. L’artificiale mondo di quei modellini è il trasferimento in un’altra dimensione di una vita che ha piegato e deluso quell’uomo buono, attaccato ai suoi pupazzi dai quali non si è mai staccato. Nemmeno quando viene nuovamente strappato alla fantasia e riportato alla realtà. Nel processo ai suoi aggressori egli deve testimoniare ma non sa cosa dire. Vede i fantasmi. È divorato dalle ombre. È il momento culminante, la fabbrica dei ricordi deve rimettere in azione la catena di montaggio. I bruti hanno volti e nomi. E il regista ne racconta la vicenda fondendo in un unico impianto la trama fittizia dei personaggi di cartapesta, reduci dalla cornice di guerre e sparatorie, con quella di uomini in carne e ossa che sulle spalle portano il fardello della violenza gratuita. Due piani che si alternano e si sovrappongono in una continua oscillazione alla quale lo spettatore non sa e non può sottrarsi. Come se, in definitiva, tutti fossero piccoli Hogencamp allo specchio delle proprie turbe e delusioni riflesse nella vita di un uomo creduto morto, al quale sono stati rubati i ricordi. Per sempre. Senza che stavolta le sue amate salvatrici potessero restituirgli i giorni.

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