“Dumbo” vola sulle ali della speranza in un mondo senza maltrattamenti
Fu un buffo capovolgimento di lettere a battezzare quel piccolo. Lo chiamavano Jumbo finché una scossa ai caratteri mobili della locandina trasformò in D l’iniziale. E da quel giorno l’elefantino con le orecchie smisurate da assomigliare ad ali divenne Dumbo. Nato in cattività, nelle gabbie di riposo di un modesto circo di provincia nell’America profonda del Missouri, voleva la sua mamma. Come qualsiasi cucciolo del mondo a due o quattro zampe. Ma il mondo degli umani non ha mai avuto il dovuto rispetto per gli animali e il vagone dove il piccolo aveva visto la luce era ancora di quei tendoni che si affidavano a deformità e mostruosità per catturare il pubblico. E Dumbo, a suo modo, rientrava nella categoria per quegli spropositati padiglioni. Finì deriso, ma la sua improvvisa capacità di volare lo portò nell’empireo, che non era un paradiso ma solo un eden economico per chi ci sapeva fare. Il caso volle che mamma e bambino pachidermi si ritrovassero a pochi metri di distanza, dopo essere stati divisi una prima volta dal modesto impresario che tenne Dumbo a battesimo. Il ricongiungimento spontaneo costa una condanna a morte per mamma Jumbo, perché il perfido manager del nuovo parco divertimenti dove tutta la compagnia è approdata, vuole che l’elefante voli anche se non è nella sua natura. La salvezza viene dai miseri e gli stessi protagonisti del ruspante circo artigianale – prima assunti nel nuovo centro attrazioni e poi licenziati a tempo di record – si alleano per liberare Jumbo e Dumbo. Ognuno può tornare così nel proprio ambiente naturale e i fuoriusciti dallo zoo circense ritrovano la loro dimensione in un teatro che contempla ora tutte le diversità ma non fa uso di animali e neppure di mostruosità.
Dumbo di Tim Burton, targato Disney, non è un cartone animato ma un film che rispecchia lo stile del regista californiano così fortemente attratto da pittura e colori che hanno un rilievo deciso in ogni titolo della sua filmografia e si distinguono anche in questa favola, molto familiare a grandi e piccini, che già nella versione cartoon, a suo tempo, avevano apprezzato il personaggio dell’elefantino miracoloso. E se il mastodonte in versione neonata recita se stesso, gli altri ruoli sono affidati a volti notissimi del grande schermo. Il protagonista è il cavaliere Holt, rigorosamente con un braccio solo perché l’altro lo ha perso (Colin Farrell già visto in Widows, L’inganno e Animali fantastici e dove trovarli) mentre l’impresario da strapazzo – l’italo americano Danny De Vito – si distingue per la sua bassezza vertiginosa. Il cattivo di turno e il manager Vandervere (Michael Keaton, protagonista di Birdman e The founder) e la belloccia è Eva Green (arruolata dallo stesso Burton in Miss Peregrine e scelta da Polanski per Quello che non so di lei), donna del mistero che conserva un ambiguo fascino anche in Dumbo fino a scoprire completamente le sue carte caratteriali solo nella parte conclusiva. Come si vede, la scelta di nomi molto particolari per ruoli borderline balza all’occhio immediatamente e si lega al tema principale che attraversa longitudinalmente tutta la fiaba. Le deformità fisiche che contraddistinguono i personaggi del circo – il forzuto, la donna cannone, il pagliaccio, il nano – sono il corrispettivo dell’utilizzo degli animali. L’elefantino truccato è una sorta di maltrattamento, cancellato soltanto alla fine, quando torna nel suo habitat. Il fattore comune è l’innaturalità – o, forse meglio, la peculiarità contro natura – a metterli al centro dell’attenzione.
La speculazione del difetto e di ciò che rende qualcuno incompatibile dal contesto in cui è calato diventa così la chiave per porre in evidenza il mancato rispetto delle diversità. Non è tanto una distinzione fra noi e gli altri quanto una differenza governata da regole appunto naturali. Da qui la strada compiuta fino all’esito conclusivo tende a dimostrare la progressiva presa di consapevolezza e coscienza che nulla di ciò che spetta per diritto biologico va alterato dall’intervento esterno. Non a caso crolla il parco divertimenti messo in piedi del perverso imprenditore che si era già fatto beffe della bella acrobata, riscattandola da un destino precario per sfruttarne le potenzialità. Il denaro e i profitti prendono il posto della lealtà ma sono i buoni sentimenti a raddrizzare il destino fuori strada degli arrivisti ad ogni costo. Dumbo è un ottimo film che piacerà ai piccini ma toccherà ai grandi spiegare loro che cosa c’è oltre alla fiaba e iniziare ad allevare cittadini futuri più coscienti del rispetto verso gli animali di quanto non lo siano state le generazioni precedenti. Ridere delle evoluzioni dell’elefantino, insomma, equivarrebbe non comprendere la morale della favola e restare a un livello superficiale di comprensione. Né più né meno di quanto facciano nei fotogrammi gli spettatori del circo. L’unico difetto sta nella latitanza di Tim Burton. Se non fosse per i colori brillanti che sono un po’ il marchio di fabbrica del regista californiano verrebbe da domandarsi dov’è il genio di tante opere da Willi Wonka a Edward mani di forbice, passando per La sposa cadavere e l'”artistico” Big eyes. L’impressione che la Disney abbia cercato nel nome celebre l’asso nella manica per un successo assicurato e quest’ultimo abbia eseguito il compito.
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