CONCRETE COWBOY
Ci tolgano pure le stalle ma non possono toglierci quello che siamo. Cowboy. Cioè una famiglia.
Coltrane era l’unico che ce l’avesse fatta. Senza uno straccio di genitore, nero e con il mondo contro, era diventato John Coltrane. Ovvero il re del jazz e del clarinetto. A Philadelphia era arrivato ragazzino, senza nemmeno sapere per quale ragione fosse al mondo. Come lui, Cole, che un padre ce l’aveva. E pure una madre. La stessa che, in preda alla disperazione lo stava scaricando in Fletcher street, dopo averlo puntualmente tirato fuori dalle grinfie degli sbirri, costretti a isolarlo dalla solita rissa. E alla scuola che l’aveva espulso. Cole non l’aveva mai visto, il padre, uno sbandato che aveva messo la testa a posto e viveva da cowboy con il suo cavallo alla periferia di una metropoli che, di spazio, ai cowboy, non ne dava. E il ragazzo, disgustato da quel padre che faceva dormire la bestia in salotto, se ne sarebbe andato la mattina dopo se non avesse incontrato Smush, un altro che aveva il sogno di allevare equini in un ranch, vivere all’aria aperta, in pace con se stesso e con il prossimo. Per riuscirci, qualcosa di male lo doveva pur fare, perché i soldi non vengono dal nulla. Per questo spacciava. A Cole non erano bastate le parole del suo vecchio, la delinquenza ha il suo fascino, indissolubilmente legato all’adrenalina dei rischi. E tra una strada modesta e una sbagliata aveva scelto la seconda perché non si era accorto che quello che cercava stava nella prima. Una famiglia. Finché, ad aprirgli definitivamente gli occhi, ci si mise il destino e una sera lo costrinse ad assistere all’amico che cade a sotto i colpi di un sicario.
Concrete cowboy è il film d’esordio di Ricky Staub, nero come non si è abituati a vedere un cowboy e tanto meno ce lo si immaginerebbe, seppur ai margini della nera Philadelphia. Ma questa – come è ormai abitudine di molte sceneggiature – è storia vera. Verissima. Tratta da un romanzo di Gregory Neri – Ghetto cowboy (Candlewick, pp. 218, euro 6,38) – che approda su Netflix con tutto il bagaglio dei reali protagonisti, in passerella nelle ultime sequenze, che accompagnano lo scorrere dei titoli di coda. Quindi il consiglio è di aspettare a scollegarsi perché la fine dopo la fine la dice lunga sulla storia di Fletcher street. Cavalli che vivono in città. “Progresso” urbanistico e tecnologico. Comunità da sempre relegate nel passato che invece sopravvivono e hanno subìto il beffardo destino di infliggere loro la stessa sorte che toccò agli indiani. Respinti oltre una frontiera che in questo caso è la cintura metropolitana, dopo essere stati isolati in un ghetto fatto di pregiudizi più che di motivazioni. E se con western si è portati a pensare allo scontro tra bande nelle megalopoli, dove i grattacieli calpestano la povertà, stavolta ci si trova davanti a un far west ricostruito. Sotto mentite spoglie, che vuol sembrare vero ma sa di non esserlo. Odora di stalla e dei racconti dei “vecchi” che ne hanno viste di tutti i colori e insegnano al pivello Cole a pulire il letame perché, in fondo, non c’è cowboy che non sia passato da quella disgustosa gavetta. La stessa che permette a Cole di far amicizia con Buh. Domarlo. E diventare quel che dice un vecchio adagio. “Per ogni cavallo c’è solo un cavaliere”.
In questa prospettiva il film di Staub diventa anche un testo di formazione e segue la crescita di Cole con tutti gli ostacoli che un quindicenne si trova sul suo cammino, il bivio tra delinquenza e guadagno facile con onestà e sofferenza. Il padre che non credeva di avere e la famiglia che non sapeva di aver trovato. In una parola, valori. Ed è ciò che trasmette questo ottimo Concrete cowboy che parte lento e sonnacchioso, con scene che sembrano un’antologia da déjà vu e quasi scoraggiano di fronte ai soliti scorci di una retorica etnica già vista e sentita – stile Moonlight e Se la strada potesse parlare – con il rischio improbabile di un risultato destinato al confinamento negli Stati Uniti dove, quello dei neri è un problema molto più sentito e urgente che altrove. La sorpresa giunge nella seconda parte dell’opera dove il tono cambia. E chiunque potrebbe sentirsi – anche solo per un attimo – un cowboy metropolitano, una vittima del progresso, un avanzo di un mondo seppellito a Wounded knee. E allora quella che era la solita malavita, il classico guadagno facile di un’ambivalenza scontata tra criminalità e rettitudine, diventa la via stonata alla portata del misero per uscire dall’umiliazione. Nel dialogo tra Smush e Cole in cui il primo spiega al secondo che con i guadagni potranno aprire il loro ranch e vivere in pace, si comprende la scommessa disperata di chi è all’ultima spiaggia. “Che uomini si aspettavano che diventassimo, insegnandoci solo a guardarci le spalle” dice il padre al figlio in una seconda parte dove spicca tutto quello che sembra nascosto o mancante nella prima. In fin dei conti, pur abitando a Philadelphia, cioè in una città, Harp ammette che “l’unica cosa che ho conosciuto è il dorso di un cavallo”. E le stalle di Fletcher street diventano il baluardo di una vita. Una frontiera anche con la retorica sconfitta.