NOMADLAND
Ci vediamo laggiù… in fondo alla strada
La grande recessione l’aveva lasciata vedova, senza uno straccio di avvenire ma lei, Fern, non era tipa da abbattersi. Non lo è mai stata nemmeno quando, giovanissima, aveva lasciato la famiglia perché quella del nomadismo è una vocazione. E l’affetto, mai tramontato per sorella e genitori, è sempre rimasto. Ebbene nemmeno l’ultimo rovescio ha piegato quella donna, spigolosa ma dal cuore generoso, che senza più un marito e un baricentro è salita sul suo furgone ed è realmente diventata una cittadina del mondo. Una donna tutt’altro che allergica al lavoro e disposta anche ad umili mestieri per potersi mantenere. Nomadland di Chloé Zhao è il suo film e, prima ancora, è stato il suo libro, scritto da Jessica Bruder, sceneggiato dalla regista cinese, affascinata dall’occidente. I premi che sono fioccati in un anno unico e indimenticabile sono il riconoscimento dell’originalità di un’opera che nulla c’entra con i nomadi propriamente intesi. E ha un doppio aspetto anche nei recenti Oscar. Il premio per la regia è regalato con eccessiva generosità, quello all’attrice invece sacrosanto. Fern è l’espressione più eclatante dei poveri di ultima generazione, talvolta tali in tarda età, quando tutto appare irrimediabilmente compromesso e sembra impossibile poter lavorare. Per lei l’autosufficienza non ha confini né contorni e il suo furgone diventa una casa, nella stessa misura in cui non le risulta umiliante pulire i servizi igienici di un campeggio. È una geografia allo stesso tempo psicologica e sociale, fisica e politica dove affiora un barlume di lacrima – peraltro repressa – soltanto quando un altro anziano incontrato in questa vita da randagi le rompe inavvertitamente un piatto, reduce di anni più felici.
A incarnare l’eroina di una terza età lontana da stereotipi ossessivi sta una Frances McDormand dal carattere perfetto per dar vita a una donna senza tempo che non conosce la parola resa. Ha un cuore che batte ma le emozioni faticano ad affiorare. Ha il piglio di chi non si lascia travolgere ma sa di essere stata travolta. I vagabondi che non ti aspetti girano gli States su vecchi tromboni della strada e bivaccano dove capita, talvolta interrompendo la loro odissea per tornare a casa o finire in mano a un medico perché la salute inizia a tradire. Nomadland è un film di fascino. Rude. Di quelli che sanno di catrame e bitume. Di strade polverose. È la storia della società del gambero, quella che non è capace di garantire un riposo dopo una vita di lavoro e che lascia prosciugati nell’affanno coloro che dovrebbero vivere la stagione della serenità. In buona sostanza, il progresso diventa un regresso. Allo stesso tempo è uno sguardo impietoso sul sociale che mette nero su bianco la sconfitta della collettività. Eppure, come in ogni emergenza, si sviluppa ed emerge uno spirito di solidarietà che va ben al di là del mutuo soccorso. I tramonti e l’alba che si affacciano tra i fotogrammi sono un simbolico riferimento al crepuscolo delle ultime stagioni della vita umana in rapporto ai bagliori di speranza che sempre si affacciano ai giorni di chi soffre. Ne esce così un road movie che parla con immagini affatto patinate di una vita da senza tetto. Provvisoria come il futuro sempre più precario.
La povertà di artifici tecnici, l’aridità dei paesaggi esteriori e interiori sono la cifra distintiva di un microcosmo ai margini che lascia riflettere. Non c’è solo l’immigrazione e l’eterna rincorsa a quel “sogno americano” che abita più le stanze del mito che gli spazi della realtà. Nomadesimo e povertà non sono insomma prerogativa del terzo mondo alla ricerca di uno status civile. Oggi è moneta comune alle vittime di una quotidianità a misura di classe debole sopraffatta. I risvolti di un’America che nessuno racconta sono lì, tra i fotogrammi di Nomadland che ha portato in giro per il mondo le storie di isolamento stile terzo millennio che non guardano a etnie o passaporti. A provenienza o mezzi di trasporto. Esiste una trasversalità dell’indigenza e dei meccanismi macroeconomici che triturano la società in vari modi. Fern è l’esempio di donna che resiste. Esempio o modello…