Lucien dedica a Louise le sue “Margherite”. La poesia non fa rumore. È una carezza dell’anima ma la Francia dell’Ottocento non sa amarla. Conosce il gusto amaro della vendita e quel sentimento puro e vero di un modesto tipografo di Angoulême è scambiato per tradimento. Louise, con l’attrazione superficiale di una donna trascurata, lo invita a partire con sé per Parigi ma là il degrado è maggiore che in provincia. E l’uomo candido si rovina. Le viene chiesto il ripudio di quello spasimante ambizioso e un po’ arrogante che i salotti non vogliono ospitare. E nemmeno elogiare. Non ci sono lodi, solo il disprezzo. La capitale è la culla della corruzione. Tutto è in vendita e nulla è vero. Le notizie dei giornalisti. I libri degli editori. Gli applausi di teatri che non sanno decidere, se non con le mani prezzolate di un faccendiere che fischia o acclama in proporzione di quanto denaro gli è stato messo nelle tasche. È la società dello spettacolo, bellezza. E, dietro le auto reggenti rosse della vedette, è marcia. Come la mela del peccato intrisa di cianuro. La bellezza che nasconde cancrena. E morte. Lo specchio delle apparenze riflette la cattiveria di un mondo che vuol continuare a prosperare nella prostituzione. Non solo quella fisica di donne leggere ma pure quella di intellettuali proni al miglior offerente. Giornalisti che si sorprendono trafficanti di parole, al servizio di chi ha più soldi da mettere sul piatto. Tra editori analfabeti e impresari senza scrupoli. La comunicazione di massa nasce in un mondo avariato che continua a percorrere a tutta velocità la china del precipizio con il sorriso sulle labbra. Ignaro o incosciente.

Illusioni perdute di Xavier Giannoli, regista al quale si deve anche Marguerite, è un titolo amaramente sintetico e perfetto nel ritrarre due secoli di delusioni sociali. Tratto da uno dei romanzi che compongono la “Comédie humaine” di Honorè de Balzac, l’eccellente film di Giannoli è la concreta dimostrazione che in due secoli poco o nulla è cambiato se non soltanto le forme di abbigliamento. Tutto resta drammaticamente in vendita nella vita, nella cultura, nell’arte perché è l’uomo ad essere precipitato a capofitto nel degrado e nella corruzione, tentando di inseguire un benessere e un potere che non deriva dal prestigio o dall’autorevolezza ma dalla ricchezza. L’accumulo che consente di acquistare scrittori e intellettuali è sintetizzato nella figura dell’editore analfabeta che decide la pubblicazione di chi lo paga o lo ricompensa in forme diverse. L’autore è insomma faber fortuna suae nel senso che ottiene in proporzione di quanto investe su se stesso. Un concetto che poco stupisce perché l’attualità è abituata al fai da te in versione culturale, dove lo sfruttamento è più sottile e mascherato rispetto ad altri settori. Nondimeno esiste. Balzac aveva impietosamente tracciato la sua analisi della società in un romanzo diviso in tre parti – I due poeti, Un grande uomo di provincia e Eva e David, noto anche come La sofferenza dell’inventore – che nel film non hanno soluzione di continuità.

Non c’è cesura. La comunicazione di massa è un universo cinico in cui tutti possono essere comprati nello stesso momento in cui possono essere venduti, senza rispetto per il valore umano o intellettuale. E questo è ciò che maggiormente brucia nell’assistere alla rovina dell’uomo in tutti i suoi aspetti. E, se da un lato è ciò che affascina del patinato film in cui ogni ritratto è un piccolo capolavoro artistico di bassezze umane, dall’altro colpisce l’anticipo di due secoli o, se si preferisce, il fatto che in questi duecento anni l’umanità non abbia saputo, né forse voluto, correggersi. Se quindi il cinismo è la moneta comune e il denominatore che unisce i personaggi interpretati da Gerard Depardieu, l’editore che non sa leggere, Benjamin Voisin il poeta rampante, Vincent Lacoste il caporedattore prezzolato e Xavier Dolan intellettuale senza scrupoli, nessuno di essi ha uno status personale e uno spessore individuale rilevante. Sono parti di un mosaico. Un mondo che in ogni piega mostra le sue crepe vistose e, si potrebbe quasi dire, l’assenza della speranza che qualcosa possa finalmente e davvero migliorare. Una commedia umana con il sapore tragicomico dell’incapacità di essere uomini. Agire e ragionare in nome di principi. Fedeli a una dignità che tuteli almeno la propria personale credibilità. Illusioni perdute. Come a dire, quello che avremmo dovuto essere e non ne siamo stati capaci. Forse Balzac poteva sperare che nei secoli qualcosa migliorasse, oggi è soddisfatto solo il pessimismo.

 

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