Se la musica per vecchi è roba da giovani
[photopress:Cover_The_Union_300CMYK.jpg,full,alignleft]No, no, di più non si può fare. Questo è un album suonato sostanzialmente dal vivo, con quel brivido che solo il frizzicare di un amplificatore acceso provoca in qualsiasi musicista. In questi, poi: Elton John ha perso il barocchismo stantio su cui si crogiola da un bel po’ (a parte nella manieristica When love is dying con troppo Bernie Taupin dentro). E Leon Russell, praticamente una leggenda e praticamente ormai un fantasma (visto che capelli bianchi e lunghi??), suona e canta come un esordiente, frenetico e vibrante e ben consapevole che la va o la spacca e lui, dopo esser stato sottobraccio quarant’anni fa a Jerry Lee Lewis e Bob Dylan, rischia di tornarsene a suonare in localetti scrostati tipo il Snail Pie Lounge di Glenville. Ecco, questa è la chiave di The Union: la resurrezione, la catarsi, il bisogno insomma di togliersi di dosso paure, rimorsi, condizionamenti, noia. Insomma, The Union è potente e libero perché se ne frega dei generi musicali e li mescola tutti, specie quelli nati di qua e di là dal Mississippi, il country, il gospel, naturalmente il soul e poi il rock’n’roll ma solo quello honky tonk, uh mamma mia, con la timbrica dei pianoforti verticali suonati dai pianisti spiegazzati nei saloon del Far West. E sembra proprio di entrarci con gli speroni ancora impolverati, mentre inizia l’incontenibile Hey ahab, che piacerebbe pure agli Allman Brothers, oppure quando il coro accompagna le voci di Hearts have turned to stone, con quel suono bruciante che solo dischi come Exile on main street dei Rolling Stones sono riusciti ad afferrare. Dai, se non è una gioia questa. E un po’ (solo un po’) del merito è del cast stellare che accompagna questi due sessantenni. Fosse un film, ci sarebbero Meryl Streep, Robert De Niro, Leonardo Di Caprio, Robert Redford, Al Pacino tutti insieme. Qui c’è un produttore favoloso, T Bone Burnett, strumentisti fuori dal comune come il geniale chitarrista Marc Ribot o il batterista Jim Keltner, in Gone to Shiloh canta anche Neil Young e Brian Wilson (dicesi Brian Wilson dei Beach Boys) fa i cori in When love is dying. E poi sì, poi basta.
non sono una grande amante di elton john sebbene debba riconoscere la sua fama e il fatto che certe sue canzoni siano ormai dei grandi classici famosi in tutto il mondo.
io sono un’amante del jazze trovo formidabile un artista che in questi ultimi anni ha rivalutato e svecchiato molto questo genere musicale, avvicinando tanti giovani che generalmente si interessano a ben altro in fatto di musica. parlo di mario biondi, l’ho ascoltato per la prima volta in ocncerto, la scorsa estate a Palermo, ero un po’ titubante inizialmente e anche restìa nei confronti della sua musica, ma mi son dovuta ricredere. c’eran otantissimi giovani, ragazzi e ragazze molto entusiasti perchè, a quanto pare si balla la sua musica. è uscito da poco il doppio album di questo live in sicilia e penso che lo prenderò quanto prima perchè è un artista che va valorizzato, per il lavoro che sta facendo col jazz, richiamando fasce d’età nettamente inferiori alla mia.
se dovesse interessare a qualcuno, è pubblicato dall’etichetta indipendente Tattica e si trova anche su itunes per chi preferisce gli mp3 (io vado per il classico cd)
evviva la buona musica che piace ai giovani e meno giovani!!
peccato solo 4 messaggi per un’opera del genere che ho come la sensazione mixi il pop radicato dentro Sir Elton al country blues armonico di Russell. Insomma un cross fader impercetibile ai piu’ forse ma ascoltando bene si “vive” questa splendida avventura……ribadisco splendido. Sai chi ci avrei visto bene Paolo, un certo Ketih Emerson con dei fraseggi alla Mussorski (non ricordo come si scrive) su un altro piano ,onde evitare di litigare col baronetto…ma un fraseggio come nella sigla della trasmissione tv della quale non ricordo ANCORA il nome in stile film “la stangata” ci sarebbe stato proprio bene.Una pennellata di allegria e fantasia. Un po’ autoreferenzialista?Puo’ essere…….ciauz
Grande disco, una doppia (inaspettata) resurrezione, per un artista che si è nascosto dal music business e per uno che lo ha cavalcato fino alla sovraesposizione (anche se già gli ultimi 3 dischi non erano male).
E bell’articolo.
you’re great Paolo,ciao Luca,gran disco!
L’hai detto, Luca.
Paolo, e poi sì basta! Appunto! In pratica ci hai appena detto che se nella musica non ci metti l’anima e la passione cosa ci stai a fare con gli strumenti in mano? Un grazie infinito! 😉
Rock on,
Luca