Il Mediterraneo è stato un incantevole crocevia di identità. In questo spicchio di mondo che si concentra fra il sud dell’Europa, le coste settentrionali dell’Africa e lambito ad est dall’Asia abbiamo visto nascere e svilupparsi alcune delle più importanti civiltà con il correlativo incrocio delle tre grandi religioni monoteiste. E l’Italia, che di questo mare e di queste identità ne è intersezione perfetta, nonostante una contingenza attuale assai sfavorevole sia per demeriti endogeni che per fattori esterni, non può abdicare a questa storica vocazione. L’Europa stessa non dovrebbe abdicare alla sua Storia, confidando in una visione altera e non solo compiaciuta o stupidamente altezzosa, capace di andare oltre l’idea stessa del continente che abbiamo ereditato negli ultimi decenni ma sempre predisponendosi alla maniera di quanto fatto in passato quando, le pur dissimili relazioni e forme sociali si dipanavano, talvolta anche velatamente, in un destino comune che riusciva a marchiare nel medio e lungo periodo il resto del pianeta.

Non si può negare che le cose siano mutate rispetto a qualche decennio fa. I grandi fatti del mondo non restano più inaccessibili alla comprensione di tutti e la portata epocale della insufficienza energetica e agroalimentare, le aree di crisi internazionali che scaricano i riverberi negativi nel nostro continente e la presenza dalle nostre parti – e sempre più in pianta stabile – di nuovi attori come la Cina, la Turchia o la Russia svelano oramai ad ogni singolo cittadino l’incapacità di ridare centralità al Mediterraneo. Pur restando un’attrazione commerciale e soprattutto un richiamo alle varie civiltà che animano e segnano i vari continenti, pare del tutto evidente che si sia persa la centralità geopolitica e ogni egemonia sul fronte culturale.

Marco Valle, giornalista, saggista e viaggiatore indomito, ha di recente pubblicato un gioiellino dal titolo Patria senza mare (Signs Books, p.540) nel quale con grande acume prova ad intersecare rilievi geografici, appunti storici, relazioni internazionali, battaglie, rotte commerciali, storie di grandi uomini e di pessimi politici all’interno del quadro di riferimento del Mediterraneo. Una sorta di Bibbia del “mare nostro” in cui si racconta ciò che siamo stati ma si disegnano realistiche prospettive su ciò che potremmo ancora essere nel medio e lungo periodo.

Il libro si apre con due riferimenti centrati. A Napoleone che amava ripetere che «la politica degli Stati è nella loro geografia» e a Carl Schmitt e alla sua teoria dei Grandi spazi. Considerazioni che oggi paiono stranianti ma sono per molti aspetti complementari e giustificate. Valle mette infatti la giusta efficacia dialettica sulle configurazioni di dominio del mare esercitato dalle potenze marittime italiane le quali avevano ereditato dal mondo romano, in forme e tempi diversi, l’idea di predominio del Mediterraneo, sottolineando quanto al contempo le classi dirigenti attuali sentano poco l’esigenza (o siano del tutto incapaci) di invertire la rotta.

Un discorso che vale soprattutto per l’Italia che potrebbe avere non solo un ruolo centrale ma rappresentare quella sorta di arteria da cui far fluire l’energia vitale dell’intero continente e porsi come sponda per ogni connessione esterna. Ma di quella potenza marittima è forse rimasta solo la velleità, un flebile ricordo che viene alimentato ad arte da figure di quart’ordine che non hanno altra abilità se non quella della finzione oratoria. Eppure, il Mediterraneo, come scrive Valle, rimane per l’Italia una prospettiva forte e l’unica via percorribile per tornare ad essere una media potenza a vocazione globale. Non si può aspirare ad avere un qualsiasi posto di rilievo nello scacchiere internazionale senza pensare di strutturare una “presenza” forte nel cuore del Mediterraneo. Non esiste altra via d’uscita!

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