Il fenomeno della globalizzazione correlato allo sviluppo tecnologico e alla diffusione pervasiva e su larga scala della comunicazione informatica e della conoscenza porta con sé aspetti ambivalenti la cui piena comprensione è ormai alla portata di ogni singolo individuo. Quando, per esempio, si rammenta il continuo e progressivo depauperamento della classe media si sta affermando una verità largamente condivisa: il trionfo di un Leviatano globale che tutto fagocita e che rimodula e ridefinisce i fondamenti sociali che avevano regolato ogni struttura del recente passato. Tuttavia, è necessario ponderare non soltanto i presupposti attuali della globalizzazione e dei consorzi sia pubblici (statali o internazionali) che privati (per esempio, le multinazionali) che ne reggono gli stilemi, ma gli effetti futuri di un simile assetto E non è azzardato fare delle previsioni pessimistiche, perché la traiettoria dello Stato regolatore sembrerebbe essere infatti allo stadio declinante, e non solo su suolo europeo, nonostante la fase pandemica ne abbia favorito un provvisorio risveglio.

Ciò che pare evidente è che democrazia liberale ed economia di mercato siano formalmente alleate per questa fase, che è però solo interlocutoria fino a che, la prima sarà relegata in un angolo remoto e disagevole dalla seconda. Perché, molto probabilmente, rispetto ad ansie crescenti di ampi strati della popolazione, per qualche anno si tenterà di correggere alcuni errori e smussare, almeno in superficie, i dogmi di cui si nutre questo Leviatano che fagocita Stati nazionali e identità particolari, fino poi ad arrivare alla certificazione della sua intangibilità. Pur salvaguardo infatti le forme della democrazia liberale, e cioè libere elezioni, parlamenti democratici con maggioranze e minoranze, istituzioni statali, altresì si riducono progressivamente gli spazi di decisione e le forme di una democrazia addomesticata diventano il quadro ordinario generale. Basti dare uno sguardo alla Cina, nuova superpotenza mondiale, che riesce a combinare tutto ciò, a far pulsare il capitalismo più avanzato nell’involucro autoritario di un Leviatano che sopprime libertà politiche e civili.

Su uno sfondo del genere si riproducono, con alterne fortune, le vicende di questo nuovo fenomeno politico che si ridefinisce nel concetto di “sovranismo” e che in un simile contesto di complessità a più livelli sembra non raramente far albeggiare soluzioni vaghe ed esemplificate. Nondimeno, nelle analisi sul suo conto, c’è un equivoco di fondo: non esiste democrazia al di fuori della nazione e del delimitato spazio di uno Stato nazionale! E se talune soluzioni e parecchi slogan sovranisti sono marchiati da pacchiana demagogia e da dosi eccessive di populismo restano pur sempre inquadrati in una condivisibile e inconfutabile cornice generale che parrebbe, per ora, l’unica risposta politica praticabile al delirio globalista.

Se la discussione pubblica ha imperniato – in specie negli ultimi anni – ogni fronte dialettico intorno alle implicazioni pericolose derivanti da fenomeni come localismo e sovranismo invece di soffermarsi sulle cause generali e strategiche di ciò che è stato rideterminato dalle crisi finanziarie e dai conseguenti assetti politici che ne ripropongono in chiave legislativa e decisionale quelli stilemi (i cosiddetti “governi tecnici”, per esempio), ciò è dovuto proprio all’impronunciabilità della reale condizione del nostro tempo e dei fenomeni globali ad esso connessi che mai svelano i reali obiettivi di lungo periodo.

Ma questi avvenimenti ci dicono una cosa importante; e cioè che l’idea dello Stato regolatore così come lo abbiamo vissuto finora sta mostrando il passo. E qui, non è tanto un “riandare” alla mesta fascinosità dello Stato interventista che abbiamo conosciuto nei decenni passati, che programma e gestisce, che determina le condizioni per lo sviluppo e redistribuisce i profitti, ma quella di uno Stato che abbia la forza di porre la Politica al centro di ogni processo di sviluppo e, attraverso di essa, adottare autonomamente strategie e metodi di governo senza esserne totalmente succube.

Su tutti questi temi ragiona Aldo Di Lello col suo Sovranismo sociale (Armando editore, p.260, euro 23), volume nel quale tenta con dotte ricostruzioni e piglio divulgativo di ricostruire ogni singolo passaggio che ha portato al sovvertimento del vecchio ordine, per poi soffermarsi sui motivi di questa radicale trasformazione in negativo derivante soprattutto dalle delocalizzazioni, dalle alterazioni peggiorative del diritto del lavoro, dal dumping sociale, dalla questione del debito pubblico e dal “mito del pareggio del bilancio” che diventa norma costituzionale. Da qui parte infatti la sua ricognizione intorno al “sovranismo sociale” che, pur non tralasciando le questioni identitarie tipiche di quel mondo, sposta l’attenzione ai temi di carattere economico; e in specie, sulla riconquista della sovranità monetaria. Ma ciò potrebbe essere fatto solo «liberandosi di antiquate concezioni della destra e della sinistra», perché scrive Di Lello: «Non che, in sé, destra e sinistra siano diventate obsolete, il problema è che, per capire realmente quello che sta avvenendo, serve un surplus di immaginazione e di eresia. I processi che portano al sovranismo sociale sono innovativi proprio perché, se intesi in modo serio, sciolgono le vecchie gabbie ideologiche, o, se vogliamo, disattivano i riflessi condizionati che sono sopravvissuti al famoso “tramonto delle ideologie”».

Deduciamo che il sovranismo sociale potrebbe porsi come soluzione ma imponendo un cambio di prospettiva anche da parte dei suoi sostenitori. La questione, infatti, non si risolverebbe nelle annose e intricate vicende dei singoli leader o dei vari movimenti perché «nulla tornerà come prima e perché la politica occidentale è terremotata» dalle fondamenta; pur tuttavia, sarebbe utile non ritenere che «i “tempi rivoluzionari” sfocino autonomamente in una rivoluzione. Possono anzi comportare una transizione lunga e complessa. Il problema più rilevante, per costruire l’alternativa possibile, è liberare le risorse pubbliche da destinare alla spesa sociale e agli investimenti per ammodernare e restituire un po’ di efficienza ai famosi beni comuni. Il macigno da rimuovere è l’enorme debito che grava sugli Stati». Per Di Lello si dovrebbe dunque ripartire «dalla contestazione dell’ideologia del debito pubblico come colpa, dalla confutazione cioè dell’idea che il debito stesso costituisca un limite a politiche di sviluppo economico (…). Per liberarsi dal potere di ricatto dei mercati e dello spread (…) non occorre soltanto predisporre adeguati meccanismi politico-finanziari di autodifesa, occorre prima di tutto liberarsi da una gabbia psicologica e ideologica insieme: quella del debito come palla al piede inemendabile e ineliminabile».

Essendo di fronte a un gigantesco esproprio di democrazia, di futuro e di sovranità, rispetto al fronte oppositivo, dovremmo dunque organizzarci intorno a tre ipotesi di azione: 1) la creazione di moneta spetta allo Stato; 2) la Banca centrale deve agire di concerto con il governo; 3) il debito pubblico non è un dogma intangibile, ma solo una misura contabile.

Lo snodo però mi sembra irrisolvibile se non ipotizzando una grave e profonda frattura epocale che possa sconvolgere e ribaltare l’intero quadro economico e così predisporre un nuovo ordine. Tutto questo perché constatiamo che, nel frattempo, siamo sempre più dipendenti – sia in termini individuali che collettivi – dalla globalizzazione e mai riusciamo ad andare concretamente oltre l’espressione della nostra insoddisfazione.

Ne è riprova – nonostante dimensioni elefantiache – anche l’Unione Europea, dinnanzi alla quale direttive e atti di indirizzo di un singolo governo nazionale sono inoffensivi e restano formalizzati in atti burocratici che mai impattano sui processi decisionali ma sempre subordinati alla visione globale. E peraltro, solo incidentalmente va ricordato che – in una fase caotica come quella attuale -, proprio un modello incancrenito come quello europeo parrebbe essere per paradosso l’ultimo baluardo prima del decisivo collasso di ogni globale forma politica istituzionalizzata. L’Unione Europea subisce infatti le medesime pressioni dei singoli stati nazionali e pur con dimensioni simil-imperiali non riesce a non genuflettersi dinnanzi alle richieste del potere economico globale.

Come venirne fuori? Beh, qui forse il punto è proprio quello segnalato da Aldo Di Lello. Se si crede nell’ipotesi sovranista, non è più sufficiente un’azione culturale che, pur legittimamente, si limiti al fronte della difesa identitaria ma abbiamo necessità di un integrale e assoluto innervamento del fronte oppositivo capace di penetrare nelle viscere della teoria economica, sovvertendola e imponendole nuovi paradigmi.

Tag: , ,