Politica

L’eterna frattura tra il popolo e l’élite che vuole indottrinarci

La frattura c’è sempre stata. Niente di nuovo. Da una parte l’élite culturale, che plasma tutto il plasmabile (dalla scuola alla televisione, dall’arte alla letteratura) e dall’altra il popolo che sta chino sui problemi e gli affanni quotidiani. Mai come oggi, però, quest’ultimo ha realizzato quanto sia siderale distanza e, acutizzando la frattura, ha marcato la rottura con l’intellighenzia (rossa) e l’ha volutamente abbandonata a invecchiare in un limbo inconsistente. 7703395E-641D-4241-A0CE-54EAA441C285 I nomi sono sempre i soliti. È inutile farli perché sono quelli che popolano i salotti buoni da decenni. Ormai se la cantano e se la suonano da soli. I festival, le kermesse, i premi letterari (e finanche quelli cinematografici) è tutta roba loro. Poi, però, i box office... beh, quella è un’altra cosa. A sentirli blaterarsi addosso, la rivolta contro le destre sarebbe ormai esplosa, gli italiani vorrebbero ancora frontiere aperte nonostante il fallimento dell’accoglienza indiscriminata degli ultimi anni e, soprattutto, la sinistra potrebbe ancora sognare lo scranno di Palazzo Chigi. Poi, però, le elezioni... beh, anche quella è un’altra cosa. Dev’essere francamente drammatico risvegliarsi l’indomani di una serata di gala, in cui ti sei convinto (come in una seduta di autoanalisi) che il Pd ha ancora il 40%, che le ong possono ancora intrallazzare liberamente, che la società è gender fluid e quindi della famiglia tradizionale non c’è più bisogno, e poi accorgerti che il popolo non ti sta dietro, che ora vota partiti “fascisti, razzisti e xenofobi”, che il populismo e il sovranismo hanno dilagato. Un incubo. E, proprio per estraniarsi da questo incubo, eccoli radunarsi nei soliti talk show, nelle kermesse (finanche al Festival di Sanremo) e nei premi che contano. Un tempo, da quei pulpiti, erano convinti di poter plasmare i gusti e le teste delle persone. E, forse, in alcuni casi ci riuscivano pure. Ora che si è spezzato qualcosa, sembrano imbalsamati in un vecchio ruolo che si vedono costretti a ripetere all’infinito per non soccombere a loro stessi. Lo hanno dimostrato i giurati dell’Ariston stralciando il voto del pubblico, i sermoni che hanno riempito la vuota serata dei David di Donatello o gli infiniti comizi fatti dai soliti opinionisti, scrittori e giornalisti nelle solite trasmissioni. Questa frattura non si consuma solo in Italia. L’America non è da meno. Anche la notte degli Oscar ha segnato il divario (già conosciuto) tra Hollywood e il resto del Paese. A sentire i panegirici di attori, registi e jet-set contro i muri, quasi ci si convince che il populista Donald Trump abbia i giorni contati. Poi, vieni a sapere che il Russiagate, su cui i giornaloni hanno campato per anni, è una messa in scena e che i democratici faticano a trovare un candidato che possa anche solo tenergli testa alle prossime presidenziali . Eppure, anche se sono ormai minoranza in Occidente, pretendono ancora di essere maggioranza intellettuale. E, con la stessa spocchia magistralmente interpretata nel film La crisi di Coline Serreau, continuano a parlarci del “diritto alla diversità, della tolleranza e dell’ideale della terra d’asilo” e si chiedono stupiti “Ma lei vota Le Pen?” (guarda qui). Un tempo, però, se la ridevano.

Ora, dietro i ghigni, ci sono solo mal di pancia.

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