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La guerra della Germania all’Italia

La guerra della Germania all’Italia

Quando nel 2011, in seguito alla bolla dei mutui subprime negli Stati Uniti, esplose nel Vecchio Continente la crisi economica dei debiti sovrani, l’Italia si trovò sotto il fuoco incrociato dei partner europei (tedeschi e francesi soprattutto). Nel giro di appena un trimestre, come ricostruito dalla commissione di inchiesta sul sistema bancario e finanziario istituita alla Camera nel 2017, Deutsche Bank ridusse “massicciamente la propria esposizione al ‘rischio Italia’ da circa 8 miliardi di euro a circa un miliardo di euro”. La disposizione fu data al desk di Londra affinché l’istituto tedesco traesse “beneficio” da un’operazione omicida che il Financial Times definì “una drammatica fuga degli investitori internazionali dalla terza economia dell’Eurozona”. Il risultato fu il crollo dei prezzi dei titoli di Stato italiano e la conseguente esplosione dello spread tra Btp e Bund.

Anche oggi il nostro Paese è sotto attacco. E non solo dall’epidemia da coronavirus. Sin dai primi di marzo, quando ci trovammo a dover fronteggiare un’emergenza sanitaria senza precedenti, dalle cancellerie del Nord Europa non sono mancati i primi sgambetti. Dal rifiuto di inviare al Belpaese mascherine e respiratori si è presto passati all’attacco sui mercati finanziari e, ovviamente, negli uffici di Bruxelles. Il copione ricalca la crisi del 2011. Oggi come allora a orchestrare il tutto è ancora la Germania con Angela Merkel cancelliera. Non deve, quindi, stupire se, già lo scorso 18 marzo, Commerzbank ha chiuso tutte le posizioni lunghe sui titoli di Stato italiani e i suoi analisti hanno raccomandato ai propri clienti di vendere i Btp e di rafforzare le posizioni “tattiche a lungo termine” sul debito di Berlino. Per l’istituto di Francoforte, che è posseduto per il 15% dallo Stato tedesco e ha una esposizione di circa 9,5 miliardi di euro sui nostri titoli sovrani, la perdita dell’investment grade da parte dell’Italia è “quasi inevitabile” e porterà i Btp a essere classificati come “spazzatura”.

Per il momento, però, la partita più dura si gioca in Europa. È lì, infatti, che si sta consumando un violento braccio di ferro tra chi, come l’Italia, chiede una maggiore flessibilità e chi, come appunto la Germania, pretende il rispetto del rigore. E, sebbene l’accesso ai soldi del Fondo salva Stati a stento potrebbe risolvere l’emergenza economica (si tratta di appena 410 miliardi di euro per una crisi che potrebbe drenare ben più energie), il dibattito svela ancora una volta l’intenzione dei tedeschi di schiacciare i propri partner. L’ultima strada che gli sherpa stanno battendo in vista dell’eurogruppo di martedì prossimo è una versione light del Mes. Per intenderci non più “condizionalità” lacrime e sangue come quelle imposte alla Grecia, ma delle garanzie più leggere. “Senza condizionalità eccessive”, propongono i francesi. “I finanziamenti non sarebbero soggetti ai ‘rigidi requisiti’ di riforme strutturali e riduzione della spesa pubblica attualmente previsti dal Mes – fanno eco i tedeschi – l’unica condizione sarebbe impiegare i prestiti per combattere la crisi del coronavirus”.

L’indebitamento, però, resta. Ed è su questo che si gioca tutta la partita. Perché, prima o poi, la presidente della Commissione Ue, Christine Lagarde, reintrodurrà il patto di stabilità e a quel punto i tedeschi faranno di tutto per far scattare i vecchi vincoli che gravano sui conti pubblici in rosso come il nostro. “La politica – ha messo in guardia il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann – non deve ritenersi scaricata dalla responsabilità”. Quest’anno, secondo il report di Michael Leister, il responsabile Strategia tassi di Commerzbank, il rapporto debito-pil in Italia arriverà a sfiorare il 150% e, nonostante il leggero rimbalzo che avverrà nei prossimi due anni, niente riuscirà a prevenire il “downgrade a junk” dei titoli di Stato da parte delle agenzie di rating. Un film già visto, dunque. Che fa apparire oltremodo fuorvianti le accuse di una certa stampa tedesca. “A Roma è tornato l’orribile tedesco”, dicono.

Ma a Bruxelles non è mai andato via.

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