Egoismo, procreazione e demografia. Il grande pregiudizio.
Un argomento così complesso e delicato come la fertilità e il calo demografico non può essere ridotto a quattro slogan ridicoli e persino offensivi. Per questo oggi sarò più lunga del solito e mi scuso sin d’ora. E’ un pezzo che avevo scritto per il libro e che oggi riscriverei identico.
Facciamo meno figli perché siamo troppo egoisti? A sentire i critici del consumismo, la ricca società occidentale rischia l’estinzione a causa del bieco egoismo che indurrebbe i suoi membri ad avere pochi figli pur di non rinunciare ai privilegi del benessere. Da risorsa, quindi, i figli si sarebbero trasformati in costo che i potenziali genitori preferiscono non assumersi, o quanto meno limitare, a vantaggio dei desideri effimeri. In altri termini, l’egoismo interiore avrebbe preso il sopravvento sull’egoismo esteriore. Ma è davvero l’egoismo il nemico da combattere? Indubbiamente il benessere si è rivelato il più potente contraccettivo dell’umanità ed innumerevoli casi sembrano avallare questo teoria, ma è un approccio alla questione alquanto riduttivo, che analizza gli effetti del benessere e li confonde con le cause, senza tener conto di tutte le variabili. Certo, se osserviamo oggi una coppia occidentale media notiamo che basa la propria scelta di procreare sulle possibilità economiche. Ha raggiunto un certo tenore di vita, ha risparmiato, valuta i costi di un figlio e spesso posticipa la decisione fino a che non ritiene di poter mantenere un tenore equivalente, senza rinunciare a troppi desideri, anche secondari, dalla casa all’automobile, ai vestiti, al ristorante, alle vacanze. Il più delle volte, quindi, tende ad avere un solo figlio, appagando al minimo indispensabile l’egoismo esteriore, ma lasciando di fatto prevalere l’egoismo interiore.
Questa teoria si scontra, però, con un paradosso: da che mondo è mondo le famiglie più povere sono le più prolifiche. Se davvero è solo l’egoismo a limitare l’istinto di procreazione, come è possibile che ciò non avvenga per chi rischia quotidianamente di morir di fame? Una prima risposta semplicistica troverebbe la causa nel consumismo sfrenato, non quindi nell’egoismo interiore puro, volto a soddisfare i bisogni essenziali, bensì in quello psicologico, il desiderio di appagare i vizi più effimeri. Dovremmo, allora, credere che l’istinto procreativo, il più potente in qualsiasi specie vivente, quello che ha permesso ai nostri valorosi geni di aspirare all’immortalità, ceda il passo così facilmente agli sfizi, ma non subisca alcuna influenza dall’istinto di sopravvivenza del singolo. Un essere umano, quindi, metterebbe a rischio la propria vita, rinuncerebbe ai suoi bisogni essenziali, in primis al sostentamento, pur di permettere ai suoi geni di replicarsi, mentre soffocherebbe, senza troppi patemi d’animo, l’egoismo esteriore, pur di non rinunciare a una pizza? Ma è credibile?
O non sarà piuttosto di nuovo una questione di equilibrio, la naturale ed istintiva tendenza di tutti gli esseri viventi a raggiungere un punto di convergenza tra i propri naturali e legittimi egoismi? Ritengo allora più costruttivo avere un approccio meno prevenuto ai rapporti tra egoismo e demografia, che, anziché scagliarsi a priori contro l’egoismo, valuti le motivazioni complessive che possono indurre gli uomini, le popolazioni ad avere un tasso di fecondità più o meno alto a seconda delle variabili in campo. La prima motivazione, d’altronde, risulta legata al tasso di mortalità.
La teoria della transizione demografica ha, infatti, dimostrato che ad una riduzione della mortalità in una data popolazione segue immancabilmente una pari riduzione del tasso di fecondità. Quando, quindi, gli uomini hanno un’aspettativa di vita più alta, sia per sé che per i figli, tendono a procreare meno. Per migliaia di anni, d’altra parte, la popolazione mondiale ha avuto un tasso di sostituzione e di conseguente crescita piuttosto modesto, perché malgrado vi fosse un alto tasso di natalità, la mortalità, sia infantile che adulta, era altrettanto elevata. Lo stesso fenomeno, peraltro, si registra nei paesi più poveri, ove la diffusa mortalità precoce è compensata da un’alta fecondità.
I nostri geni egoisti, quindi, dove è elevata la percentuale di insuccessi del loro desiderio di immortalità, aumenterebbero la riproduzione delle macchine da sopravvivenza, al fine di accrescere le proprie possibilità di trasmissione. Un bambino che muore prima di essersi riprodotto, d’altronde, non è solo una tragedia per i genitori, ma una vera catastrofe per i loro geni. L’egoismo esteriore ha, perciò, la meglio su quello interiore ed i genitori mettono a rischio la loro stessa aspettativa di vita, riducendo le risorse a propria disposizione, pur di permettere ad un numero sufficiente di figli di raggiungere l’età adulta. Quando, al contrario, le macchine da sopravvivenza “sopravvissute” sono sufficienti a garantire una buona probabilità di replicazione, i geni sembrano ritenere raggiunta la loro missione e limitano la riproduzione.
Affinché si inneschi tale limitazione occorre, però, una spinta altrettanto potente da parte dell’egoismo interiore che induca i genitori a ricominciare a pensare alla propria aspettativa di vita ed ai propri bisogni. Se, infatti, la risorse sono più che sufficienti a permettere ai figli di cavarsela da soli e di riprodursi, il sovrappiù di beni potrebbe indurli a procreare ancora, innescando un aumento spropositato della popolazione che alla lunga rischia di essere altrettanto pericoloso, perché le risorse tornano ad essere insufficienti a soddisfare i bisogni di una massa così ampia di persone.
La limitatezza delle risorse, unita ad un incontrollato aumento della popolazione, è alla base, infatti, del dramma della fame proprio in quei Paesi dove alla riduzione della mortalità non è ancora seguito un sufficiente calo della fecondità. Si tratta di realtà che ancora attraversano la fase di transizione che ha caratterizzato il mondo occidentale nel XIX secolo, quando a seguito della rivoluzione industriale e del conseguente aumento di benessere, il tasso di mortalità è calato notevolmente, mentre quello di natalità si manteneva ancora elevato, comportando uno squilibrio nel tasso di sostituzione ed una vertiginosa crescita della popolazione, raddoppiata in meno di un secolo, passando da circa 200.000 abitanti ad oltre 400.000.
Giunti a questa fase di transizione, la popolazione aumenta in modo esponenziale, infatti, perché ancora soggetta alla spinta dell’egoismo esteriore, anche detta inerzia demografica, per cui una grande massa di giovani, continua a procreare allo stesso ritmo dei genitori. Viene così in aiuto la contro-spinta dell’egoismo interiore psicologico che fa sì che le giovani generazioni bilancino la spinta atavica a riprodursi a ritmi ormai insostenibili e non più necessari all’immortalità dei loro geni, se non addirittura dannosi.
È allora davvero corretto prendersela con il vituperato egoismo interiore? O non è forse il caso di ringraziarlo? Analizzando le diverse fasi della transizione demografica alla luce dei bilanciamenti degli egoismi umani, infatti, i pregiudizi sembrano sciogliersi come neve al sole.
Nel regime antico, connotato da scarsità di risorse e conseguente alto tasso di mortalità, al fine di mantenere un adeguato tasso di sostituzione, l’egoismo esteriore prevale su quello interiore, circoscritto alla mera sopravvivenza. Le attività umane sono limitate all’appagamento di bisogni primari, come caccia, pesca, agricoltura, costruzione di un riparo.
Nella prima fase di transizione, quando il paese è in via di sviluppo, comincia a farsi strada l’egoismo interiore psicologico, gli uomini non si accontentano più dell’essenziale, ma si ingegnano per soddisfare i primi desideri secondari. Si diversificano i mestieri e si riorganizza la società per dividersi i compiti al fine di ottenere migliori risultati e soddisfare una rosa più ampia di desideri. Le maggiori risorse così ottenute permettono di diminuire la mortalità, ma l’egoismo esteriore mantiene gli stessi livelli, così che la popolazione cresce a dismisura.
Nella seconda fase di transizione, l’egoismo esteriore elevato rischia di mettere a repentaglio il benessere raggiunto, perché la crescita vertiginosa della popolazione e della famiglia riduce le risorse a disposizione di ciascuno dei membri. Al fine di ritornare all’equilibrio, gli adulti cominciano a bilanciare la spinta procreativa con il loro egoismo interiore. Posto, però, che sia l’egoismo esteriore che quello interiore puro sono già soddisfatti, il surplus di risorse viene indirizzato a quello psicologico, sia dei genitori che dei figli già nati, riducendo così i beni prima destinati agli ulteriori figli ed inducendo, di conseguenza, le famiglie a limitare la procreazione.
Alla fine del ciclo, si arriva così al regime moderno, dove il tasso di natalità torna in equilibrio con quello di mortalità, il livello di sostituzione e di crescita sono ridotti ai minimi, ma soprattutto dove l’egoismo esteriore e quello interiore sono equilibrati. Ora, la fase attuale, soprattutto in Paesi come l’Italia, sembra caratterizzata da un regime addirittura post-moderno, dato che il tasso di natalità ha raggiunto livelli così bassi da avere un tasso di sostituzione alquanto inferiore al punto di equilibrio di una media di 2 figli per donna.
È verosimile, quindi, che, se non si cambia rotta, si possa giungere all’estinzione di intere popolazioni, ma mi guarderei bene dall’agire solo attaccando l’egoismo interiore, vista l’importanza storica che ha avuto nel controbilanciare la spinta riproduttiva eccessiva. Allo stesso modo, peraltro, si sono rivelate fallimentari le strategie demografiche dei Paesi in via di sviluppo, come la Cina e l’India, che hanno agito solo sul versante dell’egoismo esteriore, controllando, anche con la forza, le nascite. Visto che il passato sta lì ad aiutarci, sarebbe allora il caso di analizzare con meno pregiudizi quanto già accaduto e di comprendere se non sia più opportuno agire per riequilibrare i naturali egoismi umani, anziché combattere invano ora contro l’uno, ora contro l’altro.
Peraltro, i maldestri tentativi fatti dalle Nazioni Unite per aiutare i Paesi sottosviluppati, soprattutto dell’Africa, a sconfiggere la povertà e la fame, agendo solo su alcuni fattori, senza una prospettiva integrata stanno lì a dimostrare la loro inutilità, se non addirittura una certa dannosità. In prima battuta si è agito solo sulla mortalità, da un lato, importando i progressi della tecnica occidentale in campo medico (vaccini, medicinali, tecniche chirurgiche) e, dall’altro, inviando tonnellate di generi alimentari. Tutto molto lodevole e per certi versi efficace, visto che il tasso di mortalità si è ridotto drasticamente. Spinti forse dall’idea che la transizione demografica potesse agire artificialmente, si è creduto, però, che bastasse portare i frutti del benessere per innescare il circolo virtuoso dello sviluppo, anziché insegnare a quelle popolazioni a costruirselo da sole il proprio benessere.
Proprio per tale forzatura, invece, alla diminuzione della mortalità non è seguita quella della natalità. A differenza che nel mondo occidentale, infatti, dove lo sviluppo è stato progressivo e naturale e dove la spinta procreativa è stata frenata dalla controspinta dell’egoismo interiore psicologico, nei Paesi del terzo mondo questo tipo di egoismo non erano ancora riusciti neppure a immaginarlo. Il risultato è stato un devastante aumento della popolazione, non compensato da un contemporaneo adeguato aumento della capacità di produzione delle risorse, ma solo tamponato dall’elemosina occidentale, che anziché risolvere il problema della fame, lo ha semmai aumentato. Non dimentichiamo, infatti, che il calo della mortalità nei paesi occidentali era la conseguenza immediata e diretta dello sviluppo, favorito dall’egoismo interiore psicologico.
Il passaggio dal regime antico alla prima fase di transizione è caratterizzato, infatti, dall’avvento di sempre nuovi desideri secondari, grazie ai quali si è avuta una corrispondente diversificazione dei mercati, sono nati nuovi mestieri, nuove possibilità per i poveri di esercitare attività differenti e, quindi, di guadagnare in modi impensabili quando l’unico mercato era costituito dalla produzione di beni essenziali e dove la popolazione si divideva perlopiù tra ricchi proprietari terrieri e poveri contadini. Con l’arrivo del benessere, quindi, l’Europa e tutti i paesi sviluppati hanno sì ridotto la loro fecondità, ma non subito, bensì passando prima da una drastica riduzione della mortalità, grazie all’aumento delle risorse dovuto alle nuove tecniche di produzione (che hanno ridotto i morti per fame), ai progressi della medicina (che hanno debellato i c.d. cavalieri della morte) ed alla diversificazione dei compiti che ha permesso il passaggio di schiavi e contadini dalle classi più povere a quelle più agiate di mercanti, artigiani e di tutti gli innumerevoli mestieri, arti e professioni nate dall’ingegno umano, rendendo così possibile la redistribuzione naturale delle maggiori risorse che il mercato metteva a disposizione ad un superiore numero di famiglie.
Ora, bene hanno fatto i paesi occidentali, attraverso le organizzazioni umanitarie a portare i frutti di questo benessere alle popolazioni che ancora vivevano nel regime antico, ma ritengo che sia stato un errore sottovalutare l’importanza di introdurre gradualmente i memi dell’egoismo interiore psicologico. Capita a volte, purtroppo, che le buone intenzioni finiscano per causare danni inimmaginabili, e così come i missionari nelle Americhe pensavano di portare la salvezza spirituale alle popolazioni indigene, ma ne hanno fatto strage importando anche virus per noi banali, ma per loro devastanti, anche per le popolazioni del terzo mondo la mancanza di anticorpi adeguati ha avuto effetti deleteri. Se, quindi, è calato il tasso di mortalità, quei popoli non erano, ed alcuni non sono tuttora, pronti a passare naturalmente dal regime antico alla prima ed alla seconda fase di transizione, proprio perché privi degli anticorpi necessari ad evitare un aumento smisurato della crescita demografica; anticorpi costituiti in primis dai desideri secondari e dal circolo virtuoso che avevano innescato in occidente, grazie all’evoluzione dell’egoismo interiore psicologico, che non ha solo ridotto la mortalità, ma ha indotto le persone a valutare con più attenzione la possibilità di procreare.
Non si deve pensare, però, che i genitori abbiano pensato solo a se stessi. Anzi. La selezione naturale di ogni specie e quella mentale, tipicamente umana, inducono, infatti, i genitori ad un continuo miglioramento sia delle proprie condizioni, che di quelle dei figli, per permettere loro di cavarsela in un mondo sempre più evoluto. È naturale, quindi, che un genitore faccia il possibile affinché i suoi figli possano mantenere il suo tenore di vita ed abbiano la possibilità, crescendo, di migliorarlo. Quale genitore vorrebbe vedere il figlio peggiorare la sua situazione? Finché, quindi, i bisogni di una famiglia si riducono all’essenziale, la sopravvivenza è già una conquista. Quando, invece, i desideri aumentano, cresce la quantità di risorse necessarie a soddisfarli ed i genitori concentrano così i beni ed il denaro a disposizione sulla crescita di meno figli. Lo stesso patrimonio che in una società in via di sviluppo è più che sufficiente per sfamare numerosi figli, diventa insufficiente per soddisfare i desideri secondari minimi di una famiglia che vive in una società più evoluta.
L’egoismo psicologico favorisce, inoltre, l’amore altruistico verso i figli, il bisogno di renderli felici assecondandone i desideri per assorbirne per empatia la gioia; desideri che, peraltro, sono, da un lato, misurati attraverso il metro di giudizio dei genitori e, dall’altro lato, si trasmettono attraverso il confronto con chi ci vive accanto in un determinato contesto storico ed in una certa società. È umano, quindi, che un genitore cerchi di donare felicità al figlio garantendogli almeno i medesimi beni che hanno soddisfatto i suoi sensi e, allo stesso tempo, simili a quelli dei suoi coetanei . Pur di garantire al figlio un adeguato tenore di vita, il genitore preferisce, allora, limitare il proprio egoismo esteriore, rinunciare ad avere più figli.
Allo stesso tempo, l’evolversi dell’amore paterno, limita l’egoismo interiore puro dei genitori, che non vedono più la prole come potenziale fonte di reddito, da avviare al lavoro in tenera età per ottenerne salari ed aiuto, ma come creature da aiutare fin quando possibile ad elevare la loro condizione sociale. Inevitabile, quindi, che da risorse da sfruttare, i figli si trasformino in un costo, seppur compensato dalla felicità che possono trasmettere. Ecco che l’egoismo interiore psicologico agisce da controspinta sia all’egoismo interiore puro che a quello esteriore e permette ad una popolazione in fase di sviluppo avanzato di cominciare a ridurre le nascite, evitando così una crescita demografica insostenibile. Non sarà un caso, quindi, che le politiche di riduzione forzata delle nascite di alcuni Paesi in via di sviluppo, oltre che aberranti, si siano rivelate scarsamente efficaci, mentre la diversificazione dei mestieri, il conseguente aumento generalizzato del benessere e la naturale distribuzione delle risorse ad una popolazione più ampia – in altri termini, il mercato libero – già mostra in breve tempo la sua ben maggiore efficacia.
Vi sono, poi, altri fattori non meno importanti che agiscono sul tasso di natalità all’avvento del benessere, legati all’egoismo esteriore psicologico. Man mano che aumenta lo sviluppo di una popolazione, infatti, cresce di pari passo la sua cultura e si allunga di conseguenza il tempo necessario ai genitori per trasmettere e rendere immortali i propri memi. Della cultura, peraltro, fa parte quell’insieme di conoscenze che ha permesso a quella popolazione di progredire, di diversificare le proprie attività, mestieri, fonti di guadagno. Se in una società rurale, quindi, nel giro di pochi anni un bambino era già in grado di aiutare in famiglia, di lavorare nei campi, così come nella prima fase industriale, un adolescente veniva avviato senza troppi scrupoli alla catena di montaggio, senza magari sapere neppure leggere, nella società occidentale moderna occorrono molti più anni per dargli un’istruzione sufficiente a trovare un lavoro che gli permetta di migliorare, o quanto meno mantenere, il tenore di vita dei genitori.
D’altronde, gli Stati moderni hanno compreso negli ultimi decenni l’importanza dell’alfabetizzazione ed il loro stesso interesse ad aumentare l’istruzione dei giovani, rendendola obbligatoria fino all’adolescenza e favorendo quella superiore. Se, quindi, la scolarizzazione nei Paesi sviluppati, da un lato favorisce una più ampia trasmissione dei memi, delle conoscenze, delle idee, delle tradizioni, assecondando l’egoismo esteriore psicologico, dall’altro lato garantisce una migliore tutela dell’egoismo esteriore puro a lungo termine. Maggiore è, infatti, l’istruzione ricevuta dai giovani, maggiori saranno le loro probabilità di trovare un lavoro remunerativo che gli permetta di cavarsela da soli e creare a loro volta una famiglia.
Non si può tralasciare, poi, la spinta evolutiva, sia dei singoli che della società in cui vivono. I genitori non si accontentano di garantire ai figli un futuro pari al loro presente, ma li spronano a studiare di più per garantirsi un lavoro migliore, guadagni maggiori ed un tenore di vita più alto. Vedono intorno a sé una società in continua evoluzione, la lotta per l’accaparramento delle maggiori risorse farsi sempre più competitiva e temono che i propri figli possano essere svantaggiati se non si mantengono al passo coi coetanei. Pensate anche solo alla rivoluzione digitale che stiamo vivendo. I nostri nonni a mala pena conoscevano l’esistenza dei computer e potevano farne a meno, ma oggi è davvero impresa ardua trovare un lavoro senza avere un minimo di dimestichezza con un mouse. Tutto ciò, è ovvio, richiede tempo, però. Più aumenta la cultura di un popolo, più aumenta il tempo necessario ad apprendere tutte le nuove conoscenze. Dove, pertanto, prima erano sufficienti pochi anni per imparare un mestiere, o per sapere quanto meno leggere e scrivere, ora occorrono lustri prima che il pargolo abbia le conoscenza necessarie a rendersi autosufficiente.
Si fa un gran parlare di bamboccioni, di trentenni a carico di mamma e papà, ma è fuorviante fare paragoni con le generazioni precedenti, senza comprendere quanto si sia modificata e prolungata la vita scolastica e di apprendistato. Fino a pochi decenni fa un diplomato aveva il posto assicurato, oggi a volte non è neppure sufficiente un master. È umano e lodevole, quindi, sacrificarsi per garantire la maggiore istruzione possibile, il conseguimento di una laurea, se non di una specializzazione. Certo, non sono pochi i casi in cui le ambizioni dei genitori non corrispondono all’impegno dei figli, così come ai loro limiti, e male non farebbe un’educazione che sappia equilibrare l’amore paterno con una giusta dose di obiettività. Troppo comodo per il figlio egocentrico, trastullarsi fuori corso per anni, mentre i genitori si sacrificano per lui, senza voler accettare che a volte l’apprendimento di un mestiere, magari più umile ma onesto, sarebbe ben più remunerativo ed utile di una laurea a tutti i costi. Certo qui c’è lo zampino anche di un sistema scolastico, soprattutto in Paesi come l’Italia, più improntato all’assistenzialismo che all’apprendimento, ma questa è un’altra storia. Ciò non toglie che, meritevoli o fannulloni che siano, più la società si evolve, più aumenta il tempo necessario alle giovani leve per rendersi autosufficienti e poter di conseguenza anche solo pensare a farsi una famiglia e, quindi, cominciare a procreare.
A ciò si aggiunga che l’avvio al lavoro delle donne, la loro scolarizzazione, la necessità di rendersi autosufficienti, in una società dove ormai di rado basta un solo stipendio per mantenere una famiglia, fanno aumentare l’età in cui “si permettono” di fare un figlio. Naturale, quindi, che più aumenta l’età in cui le madri iniziano a procreare, minori saranno le loro probabilità di averne più di uno, così come minore sarà la fertilità di entrambi i potenziali genitori. Non sono pochi, perciò, i casi di coppie anche di 35/40 anni che, pur avendo deciso finalmente di creare una famiglia, sono costrette a sottoporsi a pesanti cure per riuscire ad avere anche solo il primo figlio, o a ricorrere all’inseminazione artificiale, tante volte senza purtroppo neppure riuscirci.
L’ultimo, ma non di sicuro per importanza, fattore determinante nella riduzione del tasso di fecondità è legato alla reperibilità dei contraccettivi. È nelle società più evolute che si sono resi disponibili numerosi tipi di anticoncezionali che permettono alle persone di decidere davvero consapevolmente quando e se ave-re un figlio. Oltre alla varietà a disposizione, il costo dei contraccettivi, d’altronde, non è indifferente, tanto che le maggiori disponibilità economiche, rendono possibile una scelta, là dove prima la procreazione era legata al caso. L’avvento della pillola negli anni sessanta, ha peraltro permesso alla donna di essere protagonista di questa scelta, senza doverla più subire, stretta nella morsa tra la rinuncia al piacere ed il rischio di doversi fare carico da sola di una gravidanza indesiderata. Il cambiamento culturale che ne è scaturito è stato a dir poco rivoluzionario, tanto che è difficile dire che non sia stato uno dei pilastri dell’emancipazione femminile, sia in campo lavorativo che sociale. Per la prima volta i legittimi egoismi delle donne non hanno dovuto subire passivamente quelli maschili. Dove prima una donna era costretta comunque ad una rinuncia, ora poteva scegliere. Senza dover più sacrificare la sua sessualità, una donna oggi ha modo di portare avanti gli studi, di imparare un mestiere, di avviare un’attività e decidere di sposarsi e di creare una famiglia, non più per dovere, ma per amore e libera scelta. Può, quindi, assecondare il suo egoismo esteriore e scegliere quanti figli avere, senza dover sacrificare il suo egoismo interiore, continuare a lavorare, avere una sua vita, assecondare i suoi desideri senza dover dipendere dagli egoismi del marito. D’altra parte, è proprio grazie agli anticoncezionali, che le popolazioni occidentali hanno potuto riequilibrare i propri egoismi, riportando il tasso di fecondità a valori sostenibili ed adeguati alla riduzione di quello di mortalità, chiudendo così il ciclo della transizione demografica per giungere al regime moderno.
Ecco, ministro Lorenzin, prima di pensare di risolvere il problema del calo demografico con le slides, sarebbe il caso che ne capisse davvero le cause.