È una vecchia intervista a Mark Haddon, di tanti anni fa.
Mark Haddon ha passato buona parte della mattinata a girare per Milano. Nessuno lo ha riconosciuto. Sembra un ragazzo, ma ha più di 40 anni. Non soffre di alcuna forma di autismo, ma forse non ha fatto mai davvero pace con questo mondo. Appena può scarta di lato e si rifugia in qualche realtà lontana e parallela, dove gli scrittori non invecchiano, e si tuffano in qualche storia dissonante. Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (Einaudi, pagg. 247, euro 16, traduzione di Paola Novarese) arriva in Italia sei o sette mesi fa. L’autore è sconosciuto. È quasi un esordiente, in passato ha scritto una decina di libri per bambini, di cui ha curato anche i disegni. Ma questo – dice la sua casa editrice – è il suo primo romanzo per adulti. L’Einaudi ci crede molto. Nelle classifiche inglesi e americane Haddon ha toccato la vetta, ma in Italia forse la scalata è più difficile. E invece no, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte te lo ritrovi accanto in metropolitana, ti viene consigliato per un regalo di Natale, compare nelle cartolibrerie di paese. La casa editrice torinese ci ha speso il suo prestigio, poi tam tam e passaparola hanno funzionato. Sulla libreria on line Internet Book Shop il romanzo di Haddon raccoglie un centinaio di commenti. Sono i lettori che scrivono, consigliano, criticano. C’è il rischio che sia un capolavoro. Christopher Boone, la voce narrante, ha 15 anni e soffre della sindrome di Asperger, una forma di autismo. Il ragazzo odia essere toccato, odia il giallo e il marrone, non mangia se cibi diversi vengono a contatto l’uno con l’altro, si arrabbia se i mobili di casa vengono spostati, non riesce ad interpretare le espressioni sul viso degli altri, non sorride mai. Christopher adora la matematica e l’astronomia. Non sopporta l’umanità. Ma uno «strano caso» lo porta fuori di casa. Trova il mastino della vicina infilzato da un attizzatoio. Lui ama le storie e il metodo investigativo di Sherlock Holmes. Farà come lui. Ma le indagini diventano un viaggio iniziatico al di là del suo microcosmo. È il contatto con gli altri. Christopher racconta le sue scoperte in prima persona, con uno sguardo distaccato. E qui c’è tutto il talento del suo autore. Mark Haddon è un cinico con strappi di simpatia. È nato a Northampton, anno di grazia 1962, «una città che è riuscita a sopravvivere senza una libreria per più di dieci anni». Noiosa e bastarda, dice Haddon. Studia in un liceo privato, «una prigione con qualche strumento culturale utile». Alla fine riesce a fuggire, prima a Londra e poi ad Oxford. Per campare scrive romanzi per bambini e riesce a trovare mercato come sceneggiatore per cinema e televisione. La sua disgrazia è che ha un gene malato: è uno scrittore. Ciò che segue è la sintesi di una conversazione di meno di un’ora dove si parla un po’ del suo romanzo, di talento, manie, di quello strano rapporto con il mondo che lo ha portato a narrarne uno tutto suo per fuggire noia, paranoia, disgusto, grigio assassinio della fantasia. E va bene, partiamo con la domanda più ovvia che si possa fare: perché scegliere come protagonista e voce narrante di una detective story un adolescente con la sindrome di Asperger? «Una ventina di anni fa ho lavorato, per un po’ di tempo, con ragazzi dissociati dal punto di vista emotivo. Mi ha sempre affascinato raccontare il mondo della malattia mentale. Ma non l’ho mai fatto». Questo vuol dire che Lo strano caso del cane eccetera eccetera non lo è. «Appunto. Io ho cominciato a scrivere questo romanzo perché avevo in testa una bella scena iniziale: un cane trafitto da un forcone. Ma c’era bisogno di qualcuno che la raccontasse con assoluta mancanza di emozioni. Non volevo un tono grottesco. Sentivo la voce narrante che mi parlava di quella scena. Così mi sono messo alla ricerca del proprietario di quella voce». Era un ragazzo con la sindrome di Asperger. «Era un ragazzo in cui ho riversato tutte le manie di amici, familiari e conoscenti. E così alla fine del romanzo ho scoperto, mettendo tutto insieme, che sì, probabilmente soffriva, in forma leggera, di questa sindrome». E tra i suoi amici, familiari e affini chi non ama il giallo e il marrone? «Mia nipote. Ed è sempre lei che non sopporta che i cibi si mischino nel piatto». Il segreto di molte detective story ormai è miscelare gli elementi classici del genere con un protagonista dallo sguardo dissonante, fuori fuoco, un po’ come suonare un notturno di Johann Kaspar Mertz con la chitarra di Jimi Hendrix… «La detective story c’è, ma è solo un accidente. Il centro della storia è la voce narrante. Io volevo che tutto il romanzo vivesse nel suono di questa voce. L’importante non è che Christopher sia un po’ strano, anche se lo è, ma che lui stesso in fondo sia uno scrittore. Lui crea il mondo che vede, inventa la trama del giallo, esce dalla sua vita quotidiana e scopre una nuova realtà, per poi tornare al punto di partenza. Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte è, in fondo, il difficile rapporto tra uno scrittore e ciò che lo circonda». Tutti gli scrittori soffrono della sindrome di Asperger? «Spero di no. Ma se cresci emarginato puoi diventare uno scrittore. Altrimenti non avresti bisogno di creare un mondo alternativo. Se uno è omogeneo a ciò che lo circonda si sceglie un altro lavoro, il consulente finanziario o il giornalista. Non credi?». Qualche volta sì. Frequenta altri scrittori inglesi? «No, forse perché non ho mai fatto corsi di scrittura creativa». È uno degli enigmi di questo secolo: ma sono mai serviti a qualcosa i famosi corsi di scrittura? «Credo che ci sia una cosa che non sono in grado d’insegnare: come stare seduti 18 mesi a lavorare in una stanza, senza vedere nulla tranne la pagina che ti sta davanti e scrivere, scrivere, scrivere. La mia sanità mentale sarebbe stata compromessa se non avessi potuto avere le mie 7-8 otto ore di solitudine al giorno». Lo scrittore con il demone dentro che non ti lascia mai. Siamo al talento come malattia genetica? «No, ma il demone dentro un po’ ti brucia. Poi il resto fa parte della coreografia. A tutti gli scrittori piace esagerare con le proprie manie». Esagera, quali sono le sue manie? «Mi piace andare in canoa. Mi piacciono tutti gli sport un po’ masochistici. Adesso mi sto allenando per la maratona di Londra». Christhopher ha un talento straordinario per la matematica, la logica. La sua mente registra i minuscoli dettagli di ogni evento con una totale mancanza di partecipazione emotiva. Ma la malattia è il prezzo che paga al suo «genio». Quanto costa il talento? «Parecchio. Ma uno non può decidere se comprarlo oppure no. È come essere omosessuale, mica lo decidi tu». E lei quanto ha pagato? «Un prezzo accettabile. Non sono un talento naturale. Prima di questo avevo scritto altri cinque romanzi. Nessuno ha voluto pubblicarli. E devo dire che avevano ragione gli editori. Erano davvero brutti. Qualche mese fa ho scritto trenta pagine di un nuovo romanzo. Le ho già buttate nel cestino». Il suo editore sta aspettando un nuovo manoscritto. «Ci sto provando. Ho scritto le prime 25mila battute». Di che parla? «In estrema sintesi: di un esaurimento nervoso e di un cancro alla pelle. Quello che m’intriga è un difetto di funzionamento nella mente umana che cambia l’orizzonte della realtà. Ma faccio fatica. Sono uno scrittore farraginoso». Non si preoccupi, lo dicevano anche di Flaubert. «Sono fortunato. Il fatto di dover riscrivere i romanzi mi fa capire cosa non funziona. Gli scrittori baciati dal talento naturale non hanno bisogno di queste lezioni. Fanno centro subito, al primo colpo». Ne conosce qualcuno? «Certo, tutti quelli che hanno successo a 23, 25 anni». Ma se scrivi un romanzo a quell’età basta un prodotto decente per avere successo, la qualità serve se debutti a 40 anni. «E lei pensa che un quarantenne al debutto riesca a trovare un editore?». Ma lei ha 41 anni. «Sono arrivato appena in tempo».