Negli ultimi mesi, chiunque abbia passato un po’ di tempo su internet si sarà probabilmente imbattuto in questo aforisma:

Uber, the world’s largest taxi company, owns no vehicles. Facebook, the world’s most popular media owner, creates no content. Alibaba, the most valuable retailer, has no inventory. And Airbnb, the world’s largest accommodation provider, owns no real estate.

È difficile non restare affascinati da questo pensiero. Siamo stati abituati a pensare al capitalismo come a un meccanismo di accumulazione: maggiore il capitale, maggiore il potere, in un perverso circolo vizioso. Uno degli argomenti più utilizzati dagli oppositori del sistema capitalistico è, appunto, la natura “privilegiata” della proprietà privata, che finirebbe per trovarsi nelle mani di sempre meno persone, a discapito della collettività. Movimenti sociali in tutto il mondo hanno fatto di questo concetto un baluardo della propria visione del mondo e della società.

L’aforisma lascia sgomenti anche per questo: pur essendo evidentemente frutto del capitalismo e della globalizzazione, alcune fra le imprese più note, potenti e innovative del nostro tempo non possiedono le idee, i beni e i servizi che grazie a loro vengono scambiati, ma si limitano a favorire quello scambio. La sharing economy, quindi, sembra poter riportare nelle nostre vite un barlume di speranza che la condivisione e la collaborazione possano finalmente sostituirsi all’egoismo e all’accumulazione capitalista. Beni e servizi che un tempo erano appannaggio di pochi eletti sono ora disponibili gratis o a bassissimo prezzo per gran parte della popolazione. Ma non solo: chiunque può “sfruttare” le aziende più grandi e potenti del pianeta per risparmiare o addirittura guadagnare soldi grazie alla collaborazione con altre persone. Per non parlare della riduzione di sprechi che generano servizi come Airbnb, UberPop o BlaBlaCar. È l’ascesa di un nuovo modello economico sorto sulle ceneri del capitalismo, come teorizzato anche sulle pagine del New York Times poco più di un anno fa?

La risposta è no: nessun pasto è gratis e la sharing economy è solo l’ultimo, strabiliante miracolo del libero mercato. Un miracolo che ha polverizzato la distanza che intercorreva tra produttori e consumatori, permettendo a tutti di esserlo nella misura in cui lo desiderano, senza disporre – appunto – di alcun capitale al di fuori di quello utilizzato ordinariamente nella quotidianità. Di dimostrare che è soprattutto la cooperazione a muovere i tasselli del mercato, e che questa non è certo incompatibile con il profitto. E di evidenziare ulteriormente l’importanza dell’utilizzo efficiente delle risorse: basti pensare all’impatto del car sharing sul traffico delle nostre città, sull’inquinamento e sul consumo di energia. Non solo la sharing economy non è la fine del capitalismo, ma al contrario, come ha scritto giustamente Alberto Mingardi, ci ha reso tutti un po’ capitalisti.

Twitter: @glmannheimer

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