Le conseguenze dell’astensionismo
Come sempre, da decenni a questa parte, al termine di ogni tornata elettorale, non mancano i commenti sul sempre più ingombrante convitato di pietra della politica italiana (ma non solo): l’astensionismo. Anche le elezioni regionali di ieri, infatti, hanno proclamato il partito dei non votanti unico e vero vincitore. Se sui numeri non si può che essere d’accordo, tuttavia, è sull’esegesi del fenomeno che le interpretazioni di editorialisti e leader politici non sembrano più poter essere condivise senza suscitare qualche perplessità.
Il mantra più diffuso, secondo cui si tratterebbe di “un dato su cui riflettere” e di un campanello d’allarme per i partiti affinché questi trovino nuove strategie per “riavvicinare le persone alla politica”, nasconde infatti una frattura molto più profonda. Sul Sole 24 Ore di ieri, Carlo Carboni dava atto di questa frattura – tanto sempre più evidente quanto colpevolmente sottaciuto dai più – definendola “astensionismo d’opinione”. Termine quanto mai appropriato, perché comprende finalmente al suo interno intere fasce di popolazione che non solo hanno a cuore il bene della propria comunità e non vedono nel mezzo politico (chiunque ne sia il conducente) uno strumento utile a perseguirlo, ma che (seppure con gli opportuni distinguo) ne riconoscono addirittura una tendenziale (e intrinseca) dannosità. Un dato, quest’ultimo, che non può essere evidenziato con l’astensione – per sua natura “neutra” – e che per questo la classe politica ignora o finge d’ignorare.