Qualche giorno fa Internazionale ha pubblicato un articolo, a firma di Martin Caparros, secondo cui (il grassetto è mio):

consumare animali è un lusso, una forma di concentrazione della ricchezza. La carne si accaparra risorse che potrebbero essere suddivise: ci vogliono quattro calorie vegetali per produrre una caloria di pollo; sei per produrne una di maiale; dieci per produrre una caloria di vitello o di agnello. Lo stesso succede per l’acqua: ne servono 15mila litri per produrre un chilo di carne bovina.

Insomma: quando qualcuno mangia carne si appropria di risorse che, suddivise diversamente, basterebbero per cinque, otto, dieci persone. Mangiare carne significa stabilire una disuguaglianza brutale: io sono quello che può mangiarsi le risorse di cui voi avete bisogno. La carne è uno stendardo e un proclama: è possibile che io usi così il pianeta solo se miliardi di persone si rassegnano a usarlo molto meno. Se tutti volessero usarlo allo stesso modo, le cose non potrebbero funzionare: l’esclusione è una condizione necessaria, e mai sufficiente.

Quella di Caparros è una tesi molto diffusa. E però – come si dice in questi casi – è sbagliata. Innanzitutto, il fatto che qualcuno consumi più risorse agricole non diminuisce la capacità di consumarne di tutti gli altri, a qualunque livello. Anzi. Basta considerare che, secondo dati della FAO, il consumo di calorie pro capite negli ultimi 40 anni è cresciuto ovunque nel mondo, eccetto in Europa e negli USA: se il consumo di risorse in Occidente riducesse quello degli altri, non dovrebbe essere il contrario?

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Non solo: nello stesso arco di tempo siamo arrivati a produrre abbastanza cibo per sfamare 10 miliardi di persone, e il prezzo del cibo è calato drammaticamente.

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Se disgraziatamente ci sono ancora persone che muoiono di fame, ciò accade prevalentemente perché in alcune aree del pianeta trasporto e conservazione del cibo sono ancora poco efficienti, e ciò a sua volta dipende da ragioni di mancato sviluppo economico. Di bistecche, volendo, ce ne sarebbero per tutti. Infine, pur producendo molto più cibo di trent’anni fa, per farlo utilizziamo molto meno terreno: quasi il 70% in meno rispetto al 1961 per unità di prodotto.

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Ci possono essere tante buone ragioni per non mangiare carne o per scoraggiarne il consumo, ma non è vero che nel farlo si escluda altri dal poterlo fare, semplicemente perché la ricchezza e le risorse agricole non sono un insieme finito e dipendono in larga misura dalla domanda e dal potere d’acquisto, che negli ultimi duecento anni sono cresciuti immensamente in tutto il mondo e che – per fortuna – continuano a crescere, soprattutto nelle aree più povere del pianeta.

Twitter: @glmannheimer

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