È uscita oggi l’edizione 2015 dell’Indice delle liberalizzazioni, con cui ogni anno l’Istituto Bruno Leoni misura il grado di apertura al mercato nei diversi settori economici di tutti i Paesi dell’Unione Europea. Ma cosa sono le liberalizzazioni e perché sono così importanti? La citazione introduttiva dell’Indice, tratta da “Soul Music” di Terry Pratchett, lo spiega meglio di mille definizioni:

“Non posso permettervi di suonare da nessuna parte se non siete membri della Gilda”, affermò il signor Clete.

“Ma non possiamo essere membri della Gilda finché non abbiamo suonato”, disse Glod.

“Esatto”, disse allegramente Clete.

Le liberalizzazioni servono a questo: a eliminare gli ostacoli – spesso superflui – allo scambio di beni e servizi che minano la libertà individuale, frenano la crescita economica e mantengono in vita rendite e privilegi. L’Italia, in particolare, può trarre grande giovamento dalle liberalizzazioni: non solo in termini economici, ma anche dal punto di vista dell’unificazione dei mercati europei. Inoltre, le liberalizzazioni sono riforme a costo zero: rimuovendo barriere e privilegi, non incidono sulla spesa pubblica, ma, al contrario, possono produrre un aumento del Pil e, conseguentemente, del gettito fiscale. Ecco perché, a maggior ragione, è inspiegabile che le liberalizzazioni non siano in cima ai programmi politici di ogni partito.

Anche quest’anno, come già in quello precedente, il Paese più liberalizzato d’Europa si conferma il Regno Unito, con un grado di apertura al mercato pari al 95%: un risultato significativo per comprendere l’efficacia delle riforme adottate durante gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. E l’Italia? Guadagna un punto rispetto all’anno scorso, assestandosi a metà classifica (a pari merito con Romania e Repubblica Ceca), realizzando un punteggio pari al 67%: certo non un risultato di cui andare fieri. E però, c’è un però; anzi, due. Il primo è che alcune delle riforme più importanti degli ultimi mesi (si pensi al Jobs Act o al Ddl Concorrenza, ancora non approvato in via definitiva) non sono conteggiate nell’Indice, che si riferisce a dati relativi al 2014. Per valutare l’impatto di queste riforme, pertanto, bisognerà attendere l’edizione del 2016. Il secondo è che, guardando il bicchiere mezzo pieno, i benefici potenziali – e ancora inespressi – di una politica di liberalizzazione della nostra economia sono probabilmente i più elevati dell’intera Unione Europea.

Dove dobbiamo migliorare? La risposta, purtroppo, è “ovunque”. Il mercato dei carburanti è ultimo in Europa per grado di liberalizzazione, soprattutto a causa di una tassazione insostenibile e dello stato di arretratezza della rete distributiva. Maglia nera anche per quanto riguarda il mercato del lavoro, anche se, come accennato, è un dato da pesare al netto del Jobs Act. Nemmeno mercato postale e televisivo se la passano troppo bene, se paragonati al resto dei Paesi dell’Ue.

Ma ci sono anche buone notizie: l’apertura alla concorrenza dell’alta velocità fa segnare un miglioramento alla competitività del settore ferroviario, nonostante la palude del trasporto regionale, mentre il dinamismo dei servizi mobili nel campo delle telecomunicazioni segna un vero e proprio benchmark a livello europeo. E anche il trasporto aereo, nonostante un interventismo pubblico ancora troppo marcato, segna qualche progresso, dato soprattutto dalla fine della tragica soap opera che ha interessato Alitalia. Non è molto e non è nemmeno abbastanza: la speranza è che l’Indice delle liberalizzazioni costituisca un pungolo per il Governo di oggi e per quelli di domani.

Twitter: @glmannheimer

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