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Il racconto (si sa) ha avuto un calo di popolarità – e non parliamo di quello musicale che praticamente è sempre stato un fanalino di coda -. La musica, i suoi strumenti, i suoi protagonisti hanno ispirato poco quanti per necessità o professione o semplicamente per passare il tempo si sono cimentati e si cimentano con le parole. Eppure i soggetti non mancano. Dal pianoforte al flauto traverso, dalle arie barocche ai tempi irregolari di una sonata del Novecento, fino ad arrivare ai giorni nostri, con l’elettronica, la computer music e la rivisitazione in chiave moderna delle antiche polifonie. Un mondo coi suoi “abitanti” col quale si possono inventare delle storie. “Fuori Tono” da oggi in poi – muovendosi non solo nell’era moderna di cui per sua scelta si occupa – proporrà come ultimo aggiornamento del mese proprio un racconto musicale, accompagnato da una colonna sonora e da un video che possono ben rappresentare il soggetto. Ecco il primo della serie: Una Rimini da “sogno”…

Era arrivato sulla spiaggia all’ora che avevo più o meno immaginato. Una giornata tersa. Il vento staffilava le bandiere dei bagnini e l’azzurro accompagnato dal giallo dei riflessi, accecava non poco i bagnanti. Il mare a luglio, quell’anno, era come un cavallone. Una bestia da domare. E in quell’istante sapevo di dover incontrare Carlo. Nei momenti più cruciali della nostra vita le cose, le persone e anche gli spiriti magni che più amiamo ci appaiono, come per salutarci, confortarci perfino soccorrerci. A Rimini Carlo lo chiamavano il “maestro”; oltre ad ammirarlo per il suo talento, in tanti pensavano che fosse un uomo di mondo. Del resto un uomo di mondo lo era un po’ per davvero perché – in giro si raccontava – aveva vissuto e suonato persino ad Amsterdam, a Parigi, per poi tornare nella sua Rémin, questa città di tuffi, gelati e “bele ragasse” al passeggio di sera. E stamane, a sorpresa, quell’acclamato maestro era a due passi da me, che ero andato a camminare proprio con la speranza di vederlo. Figura opaca per il chiarore di una mattinata feriale. In controluce, di lui intuivo le sagome del corpo e della testa, e ancora i pizzi romantici della camicia che indossava. Nelle mani teneva qualcosa, forse uno strumento. E mentre cercavo di capire la natura esatta di quell’oggetto che impugnava, arrivò la sveglia con dolcezza. Qualcosa di inaspettato per me che stavo in un’altra dimensione, nelle braccia della divinità del sonno, Morfeo.

“E’ tardi, dobbiamo ripartire…”, sentii dire da lontano da mia moglie. E di Carlo più niente. Tutto un sogno. Quella storia che nel sonno il mio cervello aveva appena dato come un film mi turbava non poco, perché nel vedermela sfilare davanti agli occhi chiusi, mi era sembrata anche reale, troppo reale. Ora quella figura che mi era apparsa sprofondato nella notte pian piano svaniva. Ripresa coscienza vedevo la stanza del pernottamento. Niente più fantasmi, immaginazioni, quell’accidenti di musicista che non esisteva se non da qualche parte nella mia testa. Sceso nella sala dell’Iris, così si chiamava l’albergo in cui mi trovavo, subito un buon caffè, pane nero e miele per riprendere contatto con la realtà del gusto. Raccontavo delle divagazioni oniriche all’albergatore, faccia da piadina, dialetto saporito e quell’ospitalità che qui tra bellezze e buona tavola è una religione. Il suo commento mi lasciò un po’ così, perché fu un poco laconico nel concludere che a Rimini si scopriva sempre qualcosa: l’amore, la passione, la libertà. Tutte balle, naturalmente. Su queste parole – comprese le sue esclamazioni alla bolognese, del tipo “sorbole” – mi parve si sentire le sirene dei soccorsi arrivare dalla zona del mare; sirene che l’oste si precipitò a minimizzare spiegandomi con tono scherzoso, confondendo anche un po’ le carte, che dalle rive del mare il canto di quelle dannate tentatrici arrivava quando meno te lo aspettavi. Andai in camera, per non sentirlo più.

In stanza piegando gli indumenti sapevo che avrei dovuto proseguire il viaggio, ma decisi di trascorrere la mattinata a zonzo per il centro urbano. E passeggiando tra le bancarelle di un mercatino avevo trovato libri, vecchi, alcuni forse antichi.  Di quei tomi ne comprai uno sulla locale chiesa di Santa Maria ad Nives; raccontava della cattedrale che faceva parte dell’ospedale misericordia. Poi mi venne in mente che un orfanotrofio con quel nome esisteva a Venezia; un luogo dove insegnò per una vita Antonio Vivaldi; le sue allieve erano senza famiglia, le cosiddette “ragazze di coro”, abbandonate dal mondo ancor prima di nascere. Nel percorso più avanti ne accennai alla signora che gestiva un negozio di antiquariato in cui ero entrato a curiosare, il “da Rimini”. Che strano, non avrei mai detto che prima di quel momento mi sarebbero piaciuti i violini. Uno da studio, per ragazzo, me lo ritrovai in mano toccando qua e là, tra gli oggetti esposti; quanta polvere ma che emozione. Più tardi lungo la passeggiata, una musica diffusa ad alto volume mi inseguiva e mi dava l’idea che un certo modo dei concerti grossi – e forse quello che ascoltavo era del ravennate Arcangelo Corelli – poteva essere stato composto solo lì, in quel pezzo di Romagna dove tutto ha tinte più forti che altrove, dove tutto forse ha delle tinte.

Arrivato all’angolo lessi il nome della targhetta della via che era “Carlo Tessarini” (proprio come il “mio” Carlo…). Mi ricordavo di avere letto questo nome tra gli illustri della città, su qualche guida, un violinista nato a Rimini nel secolo dei Lumi; virtuoso e gira-mondo illustre del suo tempo. Pensai al sogno e che poteva essere proprio lui, il personaggio in controluce, l’uomo di cui nel mio divagare onirico tutti chiamavano “maestro”, tutti veneravano per la sua abilità con lo strumento. Che coincidenze…In albergo la risposta del titolare ai miei racconti avrebbe lasciato così chiunque, senza parole. Mi ripeteva di stare attento a una cosa – in realtà ricordandomelo perché già lo sapevo -: negli istanti estremi della nostra esistenza certi spiriti alti che vogliamo popolino la nostra esistenza possono giungere per aiutarci… Meglio andare, pensai. Quell’ora, ormai molto calda, esigeva un piccolo rinfresco. Riflettevo camminando e non mi spiegavo; e c’era ancora quella sirena dei soccorsi. Timoroso ma incuriosito dalla scena mi avvicinai alle ambulanze e al gruppetto di persone che si era formato. Mi venne di sussurare “Carlo…”. In quell’istante non so perché, ma il suo nome mi evocava la musica del violino, e questo mi rilassava, in quella terribile giornata mi faceva sentire meglio. Poi cominciai a vedere: quell’uomo a terra ero io, bianco come certa spiaggia, ancora più candido dei camici puliti. Gli infermieri scuotevano la testa, io non dormivo più, mia moglie non mi svegliava. Ripresi coscienza solo imboccata via Tessarini, ed è grazie a lui, a questo santo degli archi, che ora lo posso raccontare.
In allegato musiche di Carlo Tessarini (Rimini 1690 – Amsterdam…)