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Un buon direttore d’orchestra – e ce ne sono, eccome se ce ne sono (giovani e meno giovani) – sa sempre come gira l’ensemble: chi deve fare che cosa, come, quando e perché. E l’orchestra – pardon per le ripetizioni – come una squadra di calcio con il suo mister, un’azienda e il manager che la porta avanti o un asilo e le maestre – fellini docet, è un po’ come una metafora dell’esistenza umana. Di come funzionano le cose, i ruoli, i rapporti… e così via. Ma anche negligenze, mediocrità e bassezze, fino all’ultimo lato oscuro.

Il direttore allora, un buon direttore si diceva – già a partire dalle prove – in queste acque sa navigare: dà i giusti spazi al primo violino, per capacità e incarico acquisito, e non cerca di sostituirlo con un “suo uomo” perché è il favorito di turno, a esibirsi in qualcosa che è nelle sue corde, ma assai meno del suo collega-fuoriclasse-alla fine trombato. Eppure… Un direttore che sta bene – e sa far star bene in armonia – non entra in teatro per 365 giorni all’anno con il naso all’insù della serie – “io so io, e voi non siete un ca…” (come diceva al suo prossimo Alberto Sordi nel film Il marchese del Grillo); questo è il caso delle “bacchette cafone” e non di quelle con il brutto carattere e super talentuose, delle quali i nomi sono sulla bocca di tutti, perché comunque difficili da sopportare. La bacchetta che piace poi, non dovrebbe trattare gli strumentisti con sufficienza e neanche essere il principe degli avari, nei rapporti in generale, tranne quelli che interessano al suo piccolo grande ego, che magari è pure a orologeria: scatta come il cuculo quando c’è da incassare l’applauso del pubblico adorante; incassare, questo conta. Per il resto altezzosa apatia… Un incontro così, succede.

Niente di nuovo sotto il sole, si dirà. Ogni tanto meglio ritornarci sopra per il gusto della memoria: ricordate la pellicola felliniana Prova d’orchestra? Adesso non si può stare qui a sostenere che il direttore era cattivo e i poveri musicisti un piccolo popolo oppresso. E nemmeno il contrario, che gli altri – i musicisti litigiosi tra di loro a un certo punto in rivolta – erano i buoni. Però se qualcosa non va sulla scena – in squadra, in azienda o nella scuola materna – per capire vien buono che cosa diceva don Franco in riferimento a ‘Ntoni nei Malavoglia, il romanzo di Giovanni Verga: “Il pesce puzza dalla testa”. Come a dire che quando qualcosa non va in un’organizzazione la responsabilità può capitare che sia di chi gestisce. La poetica ittica del marcio può spiegare diverse cose, non però perché la disistima e rimozione di chi dirige arriva sempre dopo, magari quando i segni della decomposizione iniziano a farsi evidenti. Caos sarà bello, ma quanto costa! E allora la domanda delle domande: poi chi ci rimette?

E’ tutto un sistema che patisce. Salvo pochi casi e magari eclatanti, non il grande dir-lup-man (il fustigatore di Fantozzi) che si dà alla macchia, dopo essere stato liquidato profumatamente, protetto dai piani ancora più alti – per la serie cane non mangia cane -. Perché chi sta in testa – notoriamente – è l’ultimo a cadere, e se cade, lo fa in piedi. Per consolarsi a poco servono i Pantheon di saggi, i guru, le massime secolari. Da che mondo è mondo il più delle volte pagano i sottoposti – benedetti/maledetti orchestrali – o perché ribelli, ignavi, senza scelte, messi all’angolo oppure schiacciati dal direttore, simbolica figura di una dirigenza che sul piano umano dovrebbe minimo aggiornarsi. Già, le “bacchette, al servizio della musica, anzi dell’azienda-musica, anzi dell’azienda-musica-in crisi ma non per loro, anzi della loro saccoccia, della loro carriera e delle loro manie di grandezza. E gli altri? Ognuno per sé, dio per tutti…
In allegato: “Prova d’Orchestra” di Nino Rota