Nonostante Antonio Gramsci (1891 – 1937) sia noto ai più come uno dei fondatori ed il segretario del Partito 250px-GramsciComunista d’Italia egli non è stato semplicemente un discepolo di Karl Marx e Vladimir Lenin. Gramsci è stato infatti un grande pensatore politico al pari di Thomas Hobbes, Niccolò Machiavelli e Carl von Clausewitz. Egli comprese, più di ogni altro, che il potere si conquista e si mantiene solo attraverso una forte egemonia nell’ambito della cultura. Interrogandosi sul perché – contraddicendo l’analisi marxista – la rivoluzione non era scoppiata in Occidente, cioè nei punti alti dello sviluppo delle forze produttive, bensì in Russia un paese tutto sommato ancora economicamente arretrato il filosofo di Ales giunse alla conclusione che ciò era dovuto al fatto che nell’Impero Zarista la società civile era ancora «gelatinosa» al contrario che nel capitalismo avanzato dove essa si era espansa sino a diventare un vero e proprio meccanismo attraverso il quale la borghesia riusciva a mantenere il proprio dominio. Mentre per Marx lo Stato era semplicemente lo strumento attraverso il quale una classe dominante perseguiva i propri interessi, esercitava e rafforzava la propria supremazia, per Gramsci esso costituiva il luogo di formazione e radicamento dell’«egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società». Più concretamente, l’idea concerne la «struttura ideologica di una classe dominante: cioè l’organizzazione materiale» dell’egemonia «intellettuale e morale»: case editrici, giornali e riviste, scuole e biblioteche, circoli e «clubs di vario genere» e ancora «tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente e indirettamente» comprese l’architettura, l’urbanistica e la toponomastica stradale. Per questo Gramsci definiva la «società civile» anche «contenuto etico dello stato».

Come ha giustamente fatto notare Norberto Bobbio, Gramsci è stato il primo, all’interno del pensiero marxista, ad interpretare il concetto di società civile con un riferimento diretto all’analisi di Hegel. Infatti, in Marx la società civile era la struttura materiale delle relazioni economiche, mentre in Gramsci essa era certamente collegata alla struttura economica, ma distinta da essa. Per Gramsci, lo studio della società civile diventava essenziale nell’ottica di realizzare un’egemonia che avrebbe reso possibile il superamento del capitalismo. Infatti, le contraddizioni interne del capitalismo non erano ancora esplose, come aveva invece pronosticato Marx nel 1848. La «guerra di movimento» volta alla presa diretta del potere da parte dei leniniani «rivoluzionari di professione», doveva essere quindi sostituita da una «guerra di posizione», diretta alla conquista delle «casematte», ossia l’insieme delle istituzioni della società civile.

Questo compito storico richiedeva l’impegno degli intellettuali, che dovevano dedicarsi a promuovere il cambiamento sociale e la rivoluzione, creando «un blocco di forze sociali per condurre uno scontro contro l’egemonia della borghesia, in modo da stabilire l’egemonia del proletariato».

Il concetto di «blocco storico» ha dunque un’importanza centrale in Gramsci. Gli intellettuali, «organizzatori dell’egemonia» avevano infatti il compito storico di realizzare l’alleanza necessaria al rovesciamento dello stato borghese e di educare il proletariato, in modo da renderlo consapevole della sua missione storica.

Nel dopoguerra Palmiro Togliatti, subentrato a Gramsci come segretario del Partito Comunista, fu il primo a tentare di tradurre in azione concreta le indicazioni gramsciane elaborando la sua concezione della «democrazia progressiva» come forma di transizione al socialismo. Si tratta della ipotesi di un regime democratico repubblicano che, grazie all’articolazione dialettica tra gli organismi tradizionali di rappresentazione (parlamenti ecc.) e i nuovi istituti di democrazia diretta (consigli di fabbrica, di quartiere, ecc.), permetteva un avanzamento progressivo nel senso di profonde riforme di struttura, con la conquista permanente di posizioni in una battaglia di largo respiro verso il socialismo. Nella formulazione del Migliore, pertanto, la democrazia politica perdeva il suo carattere di tappa da raggiungere per poi essere abbandonata al momento dell’”assalto al potere”, nell’atteso “grande giorno”, per divenire un insieme di conquiste da conservare ed elevare a livello superiore – ossia per essere dialetticamente superate – nella democrazia socialista. Questo processo non cessò con Togliatti; basti pensare, ad esempio, alle riflessioni del defunto Pietro Ingrao, svolte soprattutto negli anni settanta, sulla “democrazia di massa”, come integrazione di democrazia di base e di democrazia rappresentativa, e sulla necessità di articolare egemonia e pluralismo nella lotta per il socialismo e nella costruzione della società socialista.

Dunque, se la sinistra italiana avrà anche abiurato da più vent’anni a questa parte al marxismo, non ha di certo rinunciato al gramscismo, perché giustamente esso fornisce strumenti utili per comprendere le strategie dei movimenti politici e sociali e spiegare il perché dei loro successi e dei loro fallimenti.

Ad esempio, il fallimento della rivoluzione inaugurata nel 1994 da Silvio Berlusconi – ovvero il tentativo di creare una destra credibile in grado di governare il paese – non è riuscito anche per la mancata capacità del Cavaliere di sottrarre alla sinistra l’egemonia che essa si è costruita in 70 anni all’interno della società civile. Se Matteo Salvini – che ha ormai de facto assunto il ruolo di leader del centrodestra – vorrà sfidare concretamente il Partito Democratico (erede del PCI di Togliatti e Berlinguer) non gli basterà vincere le elezioni ma dovrà sottrarre a quest’ultimo il monopolio della cultura.

(Gabriele Repaci)