Tanto per capire che cosa sia il concetto di diffamazione nelle mani dei nostri politici, ecco una storia che risale a pochissimi anni fa. Aria di crisi di governo, il pilastro della maggioranza ha appena recitato il de profundis per il premier, un ministro sente la poltrona traballare e, non a caso, si presenta alle elezioni cittadine per trovarne una più salda. Nel frattempo, gli capita di firmare il via libera a una sfilza di nomine interne presentategli dal direttore generale (come sa chiunque abbia bazzicato anche solo un po’ la politica o la pubblica amministrazione, il vero “re” di un ministero). Il tempo stringe e del diman non v’è certezza: quelle nomine devono arrivare in porto prima che la situazione precipiti e che piombino al ministero filiere politico-amministrative di colore opposto (così funziona, altrimenti perché i partiti si scannerebbero a ogni competizione elettorale?). Il ministro evidentemente non controlla: non usa, si fida, il direttore generale è uomo assai rispettato e potente, capace di muovere grandi consensi e dunque anche voti di amici e conoscenti che, in periodo elettorale, servono come il pane. Succede però che i sindacati interni denuncino situazioni poco chiare, promozioni di persone senza titoli o addirittura sotto inchiesta. Alcune di quelle nomine vengano bloccate dalla Corte dei conti. Entra in scena un giornalista che scrive – in modo, se vogliamo, anche un po’ ironico – la vicenda di cui è stato messo a conoscenza. Tutto qui? Non tanto, perché il giorno dopo il ministro inspiegabilmente va su tutte le furie (ci sono testimoni): troppo, per un articolo di critica su un quotidiano solitamente indigesto. Qualche settimana più tardi, poi, capita pure che perda clamorosamente le elezioni. Si deprime, si reprime. A caccia di vendetta, qualche tempo dopo, decide di sentirsi “diffamato” dall’articolo in questione e querela il giornalista. Chiamato in Tribunale, il politico – uno dei più potenti ancora in circolazione – ha il coraggio di presentarsi in aula, recitare la parte dell’agnellino umiliato e offeso, sostenere davanti al giudice l’inverosimile tesi di elezioni comunali perdute per colpa del discredito derivante dall’articolo (sic!), nega con convinzione che ci fosse aria di elezioni (si discetta dell’aria!) e di aver fatto quelle nomine per ottenere voti in cambio (come se fosse questa la critica mossa dall’articolo). Nessuno lo contraddice: perché il politico è stato potentissimo, perché è indubbiamente abile imbonitore, perché nessuno ha avuto voglia di leggere le carte approfonditamente (succede spesso, nei tribunali). La causa va avanti, ancora oggi, ma è chiaro che il politico intende soltanto spillare soldi al ricco editore del giornale (si indovini quale). Intanto diffama impunemente il lavoro del giornalista (temeraria inversione dell’”onere della prova”!) e, in commissione a Palazzo Madama, è lo scatenato Masaniello della rivoltante jacquerie inscenata dai politici “vendicatori” per punire i giornalisti. Approfittando, impunemente, del caso Sallusti.

P.S. Quali morali trarre dalla storia?

Primo: il politico pensa che il lavoro del giornalista televisivo sia quello di “microfono del potere”, quello della carta stampata di “buffone di corte”.

Secondo: il politico è vendicativo, usa la menzogna come strumento di lavoro e sa come trarre vantaggi o altra utilità in qualsiasi situazione.

Terzo: non svegliate il can che dorme, lasciate cadere qualsiasi modifica alla legge sulla diffamazione.

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