Non c’è niente come le presidenziali americane che ci consenta di guardarci allo specchio, ammesso che giornali e televisioni siano ancora uno specchio di questo strabico Paese. Da giorni chiunque si sia sintonizzato sulle televisioni, pubbliche e non, si sarà imbattuto in approfondimenti, speciali, servizi più o meno documentati. Frotte di inviati del servizio pubblico non attendevano altro per farsi spedire a passeggio sulla Fifth Avenue, per poi inondare delle loro meraviglie il tinello di casa nostra. Un entusiasmo, uno zelo, una dovizia – pari soltanto ai resoconti ispirati che Giovanna Botteri (un tempo brava cronista) riserva ogni sera da “Linea notte” in collegamento da New York – che suonava inequivocabilmente come il monito del marchese del Grillo (non Beppe): “Noi intanto siamo qui e voi non siete e sapete un cazzo”. Da antologia, a tale proposito, il cipiglio di Lucia Annunziata (dagli studi di New York) nei confronti di Giuliano Ferrara ed Enrico Mentana: “Giuliano, sei un perfetto cretino, studia! E tu, Enrico, ti vedo che ridi, non hai alzato neppure un sopracciglio!”.

I quotidiani non sono stati da meno. L’edizione di mercoledì 7 dovrebbe essere studiata nelle scuole di giornalismo, come esempio di che cosa sia la notizia e di che cosa vengano riempite le pagine dei giornali in mancanza della stessa. Com’era ovvio, il fuso orario rendeva impossibile aspettare il nome del presidente eletto, eppure praticamente tutti quelli a maggior diffusione hanno aperto con il titolo buono per tutte le stagioni: “La lunga notte di Obama, testa a testa nella notte, l’America ha scelto”. Bene, ma ha scelto chi? E perché buttare un euro e mezzo per restare nel dubbio? Dalle undici testate da noi monitorate è risultata la seguente classifica (prima pagina esclusa): Repubblica 11 pagine dedicate al sottovuoto spinto, Corriere della Sera 9, Messaggero e Stampa 7, Giornale 6, Unità e Tempo 4, Manifesto e Libero 3, Pubblico e Fatto 2. Si dirà: è la concorrenza, bellezza. Non puoi avere meno degli altri. Eppure, lodato l’impegno creativo delle redazioni per riempire efficacemente gli spazi, emergono palesemente i vizi costitutivi del giornalismo italiano (forse anche dell’upper class). Conformismo, provincialismo, rincorsa trionfale al carro del potente, sensazionalismo fuori posto, desiderio di essere altro da sé. Il dopoguerra non è mai finito, probabilmente . Siamo fermi al “tu vuo’ fa l’americano ma sì nato in Italì” di Carosone. Sogniamo ancora Manatthan, ci sentiamo kennediani o reaganiani e col fiato sospeso sul ponte di Brooklyn. A parlare broccolino.

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