Che bello e tenero è il giornalismo italiano, la cui vocazione principe resta quella di megafono del potere vigente, senza trascurare quello entrante. Fin troppo tenero, se da settimane sui mass media le primarie del Pd riempiono i vuoti e le tristezze della politica.

Imbracciando i temibili mitra della categoria (conformismo e superficialità), gli entusiasti sono giunti al culmine dell’osanna grazie al benedetto duello Bersani-Renzi, provvidamente elargito dalla rete ammiraglia della Rai in prima serata. A seguire, quotidianisti d’ogni ordine e grado hanno così potuto avidamente esaudire ogni legittima curiosità sull’evento. I disegnini sulla cravatta del segretario, le sagaci battute del sindaco, la saggezza del primo, la camicia alla Blair del secondo. Un amanuense è arrivato a trascrivere, minuto per minuto, la moviola delle solenni dichiarazioni; un solone con i baffi ha arguito che “il governo del dopo-elezioni sarà diversissimo a seconda del nome del vincitore”. Il maggior spasso per i giornalisti (non quello dei lettori, si capisce perché non comprano più i giornali) è stato compilare le pagelle dei giocatori, dove i particolari estetici e l’arte retorica erano prevalenti sui contenuti (in pillole, perché annoiano).

Dal che si è però compreso che i contenuti non erano stati compressi per ragioni di spazio o per fare un piacere ai lettori. Erano semplicemente andati altrove.

Non sarà infatti la giacca marron a far perdere le primarie a Bersani, né Renzi le vincerà per il nodo della cravatta da caporale. Neppure conterà il soporifero eloquio da zio di campagna del piacentino, né quello del venditore di aspirapolveri di Firenze. La marcata personalizzazione dello scontro politico, classico prodotto d’importazione americana, con personaggi di levatura così modesta non ha fatto “figo”: ha messo solo in scena due macchiette e plasticamente rappresentato il provincialismo di cui siamo ammalati. Non è una novità, né l’effetto più pericoloso. Perché il leaderismo senza leader costituisce l’arma di distrazione di massa capace di attirare elettori ingenui e in crisi d’astinenza. Una chiamata alle urne in articulo mortis, sul presupposto (truffaldino) di poter contare qualcosa. Eppure chiunque siederà a Palazzo Chigi avrà le decisioni più importanti già programmate dall’andamento della crisi economica e dai relativi conti che si faranno a Bruxelles (commissione Ue), Francoforte (Bce), Washington (Obama). L’agenda, è vero, non si chiamerà più “Monti” (ma non è neppure detto). Sopra in caratteri dorati ci sarà scritto “Pierluigi” o “Matteo”, e i giornalisti batteranno le mani ai Pupi. I Pupari intanto se le fregheranno, le mani, perché nessun voto li fregherà mai.

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