A volte è salutare sfuggire alla tristezza degli addii. Rito banale o patetico,  spesso scontato nelle sue forme, come accade tra le persone. Peggio sarebbe stato cercare di salutare in qualche modo un anno che si ricorderà tra i più mesti della storia d’Italia. Pudore o carità di patria che sia, facciamo finta di ricominciare dall’ottimismo di un’alba. Quella del 2013. Che troverà, per la vita pubblica, il passaggio cruciale delle elezioni. E, per tutti i partiti che puntino alla vittoria, la forca caudina del <che fare>. Anzi, del <come> fare. A far ripartire l’economia, a distribuire equamente i sacrifici, a ridurre sostanzialmente la spese di questo folleggiante Paese.

Sarebbe bello cominciare proprio da qui, un capitolo complesso che vede interagire gli sprechi dovuti all’incuria, quelli indotti dal malaffare, i meccanismi perversi, gli interessi delle caste contrapposte. Detto in altri termini, tanto per semplificare, potremmo classificare le spese in eccesso a partire dalla loro natura: ci sono quelle di natura colposa (perché nessuno si ricorda di intervenire), quelle di natura dolosa (perché qualcuno ci guadagna), quelle di natura meccanica (perché è difficile intervenire senza creare scompensi), quelle di natura deterministica (perché una comunità di persone non si cura degli effetti provocati sulle altre).

Senza inoltrarci oltre, proviamo a fare un primo esempio di intervento – e di proposta – sul primo e più grande capitolo di spesa: il famoso debito pubblico di 2000 miliardi di euro. E’ un meccanismo perverso, un circolo vizioso, nel quale sono presenti sprechi di tutte e quattro le categorie usate. Tanto intricato – legato com’è anche all’andamento complessivo dell’economia interna e globale – da indurre a desistere (la logica del campa cavallo, com’era un tempo) o a prospettare riforme epocali (che non si fanno appunto perché epocali) o infine a fronteggiare il mare con il cucchiaino della tassazione (senza però spezzare il circolo vizioso). E’ quanto i due economisti cari al premier Monti, Alesina e Giavazzi, rimproverano alla proposta di Giuliano Amato di una tassazione straordinaria volta ad abbattere drasticamente il peso del debito pubblico. Alesina e Giavazzi, sul Corriere, sottolineano come un intervento del genere sia doppiamente pericoloso, perché non spezza il circuito perverso e perché potrebbe generare illusioni che vanificherebbero in pochi anni un sacrificio così oneroso per gli italiani. Cosa già successa, per altro.

Cosa fare, allora? Cosa proporre? Non si può seriamente pensare di avere una soluzione salvifica. Quel poco, pochissimo, che modestia e ridotte competenze consentano di avanzare ha (avrebbe) probabilmente più un significato politico che economico. Eppure, se per esempio ricordassimo che il debito pubblico di una nazione è – in un circuito sano ancorché autoreferenziale – il risparmio depositato dai cittadini e prestato dalle banche allo Stato per interventi pubblici, potremmo pretendere che quanti d’ora in poi decidano di fare politica ed entrino in Parlamento, pagati con soldi pubblici, vedano i loro introiti diversificati (e semplificati) come segue. Una parte, lo stipendio, equiparata al reddito medio degli italiani (diciamo circa 3mila euro) per sé; una parte per le spese di attività politica (ottenuta dietro rendicontazione a posteriori, con un tetto da stabilire, e sostitutiva di qualsiasi altro finanziamento pubblico); una parte, infine, in titoli di Stato.

Quest’ultima clausola sarebbe assai importante, perché costituirebbe una specie di “prestito forzoso” di chi lavora per lo Stato allo Stato per cui lavora. Com’è giusto che sia. Ma non solo: sarebbe anche un incentivo a lavorare per il bene dell’economia del Paese, come più o meno qualsiasi dirigente di un’azienda che possiede stock-options. E anche il segnale, forte e preciso, che ai politici compete la responsabilità di una classe dirigente. Il Paese va male? I loro titoli di Stato avrebbero valore scarso o nullo. Il Paese comincia a marciare? I loro titoli di Stato aumentano di valore e lo Stato è (sarebbe)  pronto a ricompensare chi ne ha fatto rifiorire l’economia. Utopia? Mica tanto. Anzi, diciamola tutta, basterebbe poco. Che un candidato facesse sua la proposta e s’impegnasse a portarla in Parlamento. Fuori dai rischi della demagogia e ben felici, in questo caso, di trasformare il classico <politici tutti ladri> in <politici todos caballeros>. Dove caballeros non sarebbe un’onoreficenza fine a se stessa ma significherebbe, finalmente, <dirigente di Stato>.  Che i cittadini potrebbero “licenziare” per giusta causa, senza farsi infinocchiare da promesse e scarichi di responsabilità. Basterebbe, per giudicare, vedere il livello dei titoli di Stato.

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