Ora vorrebbero spedirlo a Castel Gandolfo assieme al Papa. Per non perdersi in ciance, l’hanno per il momento issato sulla croce. Ma se il soldato Bersani non merita salvezza e farebbe bene (anche a se stesso) a dimettersi, è oltremodo oltraggioso, oltre che ingeneroso, sparare sul pianista. D’accordo. Bersani ha sbagliato tutto: slogan, campagna, toni, strategie. Ma Pier Luigi è quello là, lo sapevano tutti i maggiorenti che si sono acquattati nella sua ridotta per tutto questo tempo. Anzi, che l’avevano scelto apposta, salvo poi scoprire che anche il segretario aveva un cuore e un’anima, e nutriva le sue ambizioni. Sempre inferiori e meno perniciose di quelle di D’Alema e di Veltroni, tanto per dire i soliti due che pure hanno dato così “tanto” alle sorti magnifiche della sinistra.

Il colpevole però non è Bersani, inutile nascondersi dietro un dito. Inutile aggirare il problema. Il problema è il Pd. Gira e rigira si torna sempre al dato fondativo di quest’accozzaglia di interessi tenuti assieme dalla voglia di potere. E sostenuta dalla buona fede di tanti elettori, più o meno inconsapevoli, ogni volta affranti dalla mancanza di alternative. Sintetizzo al massimo per scarnificare il male oscuro di quel partito, che ogni volta si ritrova punto e daccapo: diviso, imballato, costitutivamente proteso verso la soluzione mediana di ogni situazione. Mediana non in quanto virtuosa, bensì in quanto né carne né pesce. Scialba, sbiadita, idonea a non scontentare nessuno. Ma che razza di partito è, questa melassa informe? Fu definita come incontro del post-comunismo con il cattolicesimo sociale, ovvero due categorie legate al secolo scorso, che avevano avuto un solo vero momento di collaborazione, la solidarietà nazionale, escogitata in un altro momento di frattura profonda della nostra società, cioè gli anni di piombo. Ma l’emergenza politica ed economica che attraversiamo oggi non ha nulla a che vedere con quella stagione. E la sinistra, vivaddio, anche allora non era rappresentata soltanto da quelle due culture.

La controprova di questa indecenza strutturale rappresentata dal Pd sta nella difficoltà di trovare un bandolo nel responso delle urne. Lascio da parte la sordità pregressa, l’arroganza e l’incapacità di comprendere e incanalare quanto si muove negli strati profondi della società italiana in sofferenza, e in particolare dell’intera generazione lasciata in balia della precarietà e degli effetti della globalizzazione. Diamolo per assodato, chè anche il Pci non ci prendeva molto con quanto bolliva nella pentola dei giovani. Ma, dico, in soli quattro anni il Pd ha perduto 4 milioni di elettori, che si sono aggiunti a quanti da tempo o non votavano più o disperdevano il proprio voto. Quattro milioni di voti che stavolta sono chiaramente andati verso una sola direzione: il Movimento Cinque Stelle. Il cui programma, si può pensarla come si vuole, ma ha ragione Berlusconi quando lo definisce “di sinistra”. Ce ne sarebbe a sufficienza per dedurne una chiara indicazione politica: siamo delusi da voi del Pd, crediamo in valori che spesso avete disatteso e vorremmo portare avanti altre battaglie (nelle quali, peraltro, ci avete sempre lasciati soli, salvo quando c’era da approfittare del nostro lavoro e della nostra vittoria, come nei referendum).

Bene. Un partito degno di questo nome, di sinistra o destra che sia, avrebbe un’unica scelta e lo dico volutamente con il linguaggio ispido e scorretto che i politici utilizzano quando parlano di queste cose tra di loro:  andare a riprendersi i buoi usciti dalla stalla (li ho sentiti con le mie orecchie tante di quelle volte…). Cambiare quindi la propria politica, evidentemente non seguita dalla metà del popolo che una volta si sarebbe definito di sinistra, e governare voltando pagina. Con un po’ di coraggio in più, neppure Beppe Grillo sarebbe più un problema (ammesso che si metta di traverso). I giovani di Cinque Stelle che arrivano in Parlamento non chiedono altro.

Ma il Pd non lo può fare. Non dico che non lo voglia fare, almeno in metà dei suoi, ma proprio non può.  Metà del partito ormai – per convinzione o interesse, poco importa – è proprio un’altra cosa, un altro partito. Una formazione di centro, più o meno cattolico, ma di sicuro identico – per cultura politica, ceto sociale e interessi economici – al centrodestra di Monti e Berlusconi (sì, anche di Berlusconi, checchè ne dicano). Dico metà e metà riferendomi ai dirigenti, funzionari e militanti, perché credo che tra gli elettori la proporzione sarebbe diversa. Ma poco importa. Seguire i grillini, per un partito così strutturato, perciò sarebbe la fine. Questo in ultima analisi è il gioco di Beppe Grillo, di gran lunga più sveglio e lungimirante di D’Alema, Veltroni, Fioroni, Tonini, Orfini, Letta, Bindi e Franceschini messi assieme (detto tra parentesi, altro che comico e clown: faceva politica anche quando faceva satira, rileggersi un imperdibile articolo di Gian Antonio Stella sul Corriere di ieri).

Altro che smacchiare il giaguaro. Qui va smacchiato il Pd dal suo peccato originale, quello di mettere assieme cose che non possono stare assieme. Per questo la colpa non è di Bersani e farebbero meglio a chiudere bottega loro, senza traumi, una volta per tutte. Consensualmente: metà eletti sostengano un governo di grillini, l’altra vada pure nel gruppo di Monti. Sciolgano il Pd prima che sia troppo tardi e lo sciolga la cattiveria grillina. Di queste astruserie che bloccano da sempre la democrazia italiana ne abbiamo le tasche piene (e  il portafogli sempre più vuoto).

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