L’Autunno arabo
Per favore, che ci sia risparmiata la retorica sull’intervento americano in Siria. Gli alti lai delle menti illuminate che vedono profilarsi un “nuovo Iraq”, il giustificazionismo degli intellettuali e dei politici che debolmente protestano per il mattatoio di Damasco ma che finiscono per sostenere oggettivamente i macellai di Assad. Assad il “chimico”.
Di tutta la cosiddetta “Primavera araba” è sfuggito il senso e il pericolo, preferendo tutti gioire della (presunta) ondata di libertà. Al di là e dietro qualche élite di ispirazione filo-occidentale, si è trattato di rovesciamenti dettati da fattori interni e già da tempo sono visibili le forze islamiste che presto o tardi occuperanno il vuoto di potere creato dalle “Primavere” – a meno che la Comunità internazionale non trovi il modo di intervenire.
E’ il momento di mettere al bando le ipocrisie. Due, principalmente. La prima: che gli Occidentali debbano tenersi alla larga da quel mondo, quando essi da sempre etero-dirigono la politica mediorientale. La situazione della Siria non fa eccezione e non è diversa da quella di Egitto, Libia, Tunisia. Senonché la particolare posizione geografica, il peso strategico che Damasco riveste per la Russia, hanno impedito finora che la “Primavera siriana” travolgesse un regime corrotto e senza scrupoli come quello siriano. L’utilizzo delle armi chimiche ha aperto però uno scenario nuovo, sebbene inquietante. Continuare a tacere e a restare inermi equivale a essere complici di Assad. Sostenere apertamente le forze ribelli, come è stato fatto negli altri Paesi, non si può: troppo forte è il rischio del prevalere dei fondamentalisti (non a caso il regime damasceno propaganda da tempo la notizia dell’arruolamento tra gli insorti di ogni sorta di qaedisti di nazionalità iraniana, saudita, pakistana e persino serba).
La seconda ipocrisia è anche peggiore, perché porta a non vedere che il mondo arabo è ancora una volta incapace di fronteggiare la sfida posta dalla modernità. La sua ennesima crisi, la carica di violenza a essa connessa, ci parla di un mondo che non è riuscito e non riesce a evolversi. Di una civiltà che dal lontano Medioevo non produce più nulla, di un’élite intellettuale inetta o compiaciuta del proprio nulla, di una società che si è involuta in sé stessa e nelle proprie ritualità tribali, agognando dell’odiato Occidente soltanto il lusso e gli sprechi. Il fanatismo delle plebi derelitte del Cairo, di Tripoli, di Damasco è come se ci conducesse a esplorare il fondo di questa ferita, è come se riportasse alla superficie l’oscurità di secoli. Secoli nei quali una cappa di ignoranza e presunzione colpevole è caduta sui popoli arabi, trascinandoli a ritroso nel tempo, cancellandone le tradizioni migliori, proponendone una versione a volte grottesca, a volte orrida, che – inutile negarlo – ha fatto comodo anche agli stessi Occidentali. Sarebbe ora di togliere il velo, e spezzare l’incantesimo. Non è fiorita una Primavera, non sta per tornare l’Autunno. L’Autunno arabo dura dai tempi di Averroè, più o meno. Non si tratta di sostenere la superiorità dell’Occidente sull’Oriente, non si tratta di farne una bolsa guerra di civiltà come si propugnò dopo l’11 settembre. Anche perché quel che si vede del mondo arabo odierno ha poco a che fare con la civiltà. Si chiama correttamente “barbarie“, ed è ora che i Paesi occidentali si sveglino. E, senza curarsi degli alibi agitati dagli arabi e dei propri sensi di colpa, aiutino quel mondo a uscire fuori dall’incubo in cui s’è precipitato con le proprie mani (e grazie alle armi acquistate in Occidente, naturalmente).