Il 17 marzo 1940 si tengono i funerali del filosofo Nae Ionescu, mentore della “giovane generazione” scomparso cinquantenne tre giorni prima. Reggono la bara del docente colleghi e amici, tra cui due illustri Mircea: Eliade e Vulcănescu. Quello stesso giorno Costantin Noica scrive a Emil Cioran qualcosa di definitivo: la morte del Maestro segna la fine di una fase storica, di un’avventura dello spirito, di una stagione della vita. Nulla sarà più come prima. «L’ho sentito bestemmiare, ed era grande. L’ho visto volgare, forse volutamente volgare, l’ho udito ripetere ingiurie, offendere, ed era grande. È l’unico uomo che mi ha dato in vita la sensazione del leggendario». Sono parole che racchiudono il profondo ascendente esercitato dal “Socrate romeno” su una generazione di intelletti fuori dal comune; celebrano una grandiosità spirituale, avvolta tuttavia da un alone enigmatico chiuso da sette sigilli. A sciogliere questo mistero contribuisce Nae Ionescu. Il seduttore di una generazione di Tatiana Niculescu, dato alle stampe da Castelvecchi a cura di Horia Corneliu Cicortaș e Igor Tavilla (i quali, sempre di Ionescu, hanno tradotto due corsi universitari, usciti l’anno scorso per Stamen con il titolo Conoscenza metafisica ed esperienza religiosa). È la “biografia intima” di un personaggio carismatico e controverso, la cui personalità ha suscitato e continua a suscitare accesi dibattiti, legati soprattutto alla sua vicinanza intellettuale alla Legione dell’Arcangelo Michele, fondata da Corneliu Zelea Codreanu. Una vita ricostruita attraverso un’imponente mole di informazioni e testimonianze, che restituiscono i chiaroscuri di un uomo in bilico tra Faust e Mefistofele (con una spiccata predilezione per il secondo). Ionescu era «un amico, un maestro, un santo, un demone» disse un suo ex alunno di liceo, aggiungendo: «Aveva qualcosa di satanico, ma sapeva che la forza della vita consta di serenità, tradizioni e cose semplici, eterne». Secondo Maria Cantacuzino-Enescu, «il Maligno si sovrapponeva al professore»; aveva «uno sguardo abissale in cui non mancava qualche bagliore d’acciaio» (Octav Onicescu); «il volto dai tratti mefistofelici e gli occhi penetranti sotto spesse sopracciglia turche conferivano ai suoi giudizi accenti di magia nera» (Nichifor Crainic). L’immagine goethiana torna anche nelle parole di uno dei suoi più celebri allievi, Eliade, che lo ricorda tenere lezioni in università, «vestito con elegante trascuratezza». Mentre parla, decine di occhi ammaliati seguono dai banchi di legno gli arabeschi tracciati in aria dalle sue mani. La sua figura emana «una certa aria mefistofelica», dietro a «grandi occhi di un azzurro intenso e metallico, straordinariamente brillanti». Il giovane prende appunti, annotando queste parole pronunciate dal professore, indice della tensione verticale che ne anima il pensiero e il destino: «Sai solo ciò di cui tu fai esperienza; porti frutto solo nella misura in cui scopri te stesso. Ogni via è buona, se conduce nell’intimo del tuo essere, ma soprattutto le vie sotterranee, le grandi esperienze organiche, i rischi, l’avventura. Una sola cosa è essenziale: che tu rimanga te stesso, che tu sia autentico, che tu non tradisca il tuo uomo spirituale». Il futuro storico delle religioni ne farà una divisa esistenziale. Quelle citate sono solo alcune delle testimonianze riportate nel volume. Noica, Oninescu, Eliade, Cioran, Vulcănescu… Sono loro l’eredità spirituale di Nae, il corpo vivo dei suoi insegnamenti: l’eterogeneità dei loro percorsi successivi – dall’ontologia alla storia delle religioni, dalla matematica alla letteratura – traccerà sempre il volto enigmatico di Ionescu, indagato da Tatiana Niculescu, la quale ci ha concesso una breve intervista (la traduzione è di Horia Corneliu Cicortaș; la versione in romeno è disponibile a questo indirizzo).

Il suo “debutto” nel nostro Paese coincide con la traduzione di Confessione a Tanacu (Hacca, 2013), da cui è stato tratto il film Oltre le colline di Cristian Mungiu. Dopodiché si è dedicata alla stesura di biografie di personaggi storici, pur non essendo tecnicamente uno storico “di professione”. Cosa l’ha spinta, in particolare, a occuparsi di Nae Ionescu?

Il testo con cui ho esordito, tradotto in italiano nel 2013 dopo che la sua “versione cinematografica” (Oltre le colline) è stata premiata a Cannes, è di fatto un libro di non-fiction. È la storia di un fatto di cronaca, avvenuto in Romania nel 2005, la biografia di una giovane ignota ai più. È stato definito un A sangue freddo romeno, riprendendo il titolo del celebre romanzo di Truman Capote (1965). Ora, se scrivo biografie, è proprio perché non sono uno storico. Lo storico è interessato agli avvenimenti, alle decisioni politiche e alle loro conseguenze; analizza fenomeni e situazioni dal punto di vista critico dei posteri. Si dice spesso, d’altronde, che la storia viene scritta solo da quanti non l’hanno vissuta. Come autrice, mi interessano le vite degli uomini; amo comprenderne i destini. Ma non è tutto: a stimolare la mia curiosità sono in particolare le vite degli uomini schedati, per così dire, etichettati in un modo o nell’altro, dei quali crediamo di sapere tutto. È il caso di Nae Ionescu, che in Romania è una vera e propria celebrità. Tornando alla sua domanda, il mio metodo di lavoro è agli antipodi rispetto a quello di uno storico: non valuto la vita di un personaggio secondo i criteri e i valori della mia epoca, ma ne ricostruisco la vita, cercando di vedere il suo mondo con i suoi occhi.

Il suo libro si basa soprattutto su memorie, lettere e testimonianze personali. Che criteri ha seguito per la selezione delle fonti?

Sono una grande ammiratrice delle biografie scritte in stile britannico. Ho vissuto a lungo a Londra e lavorato quindici anni alla BBC World Service. Quando mi metto al lavoro, utilizzo diari, carteggi, le memorie del personaggio su cui scrivo o dei suoi contemporanei, archivi di famiglia e fotografie – in misura minore, libri di storia o di critica letteraria. Per me, la stesura di una biografia è come un lavoro archeologico: faccio “scavi”, trovo frammenti di vita, cerco di portarli alla luce e ricostruire un destino e un’epoca. Preparo centinaia di schede e schemi per avvicinarmi il più possibile alla persona di cui mi trovo a scrivere. Dopo la fase di documentazione, arriva il momento più difficile: mettersi nei panni del personaggio, vivere la sua vita, nella misura in cui lo permettano l’immaginazione e la mole di documenti raccolti. Nel narrare la sua esistenza, la regola principale che seguo consiste nel non anticipare gli eventi, evitando insomma di finire nella prospettiva di chi “sa già” come andrà a finire. Voglio scoprire e comprendere, non giudicare.

Tornando a Ionescu, quali sono le letture che più hanno influenzato la sua “visione del mondo” filosofica e politica?

Nae leggeva parecchio in tedesco, italiano e francese, ed era ben informato sui libri e le riviste di filosofia che uscivano all’estero. D’altronde, per il dottorato aveva studiato in Germania. È difficile gerarchizzare le sue letture, dal momento che sono state molto diverse nei vari periodi della sua vita. Semplificando molto, è possibile dire che i suoi corsi erano spesso ispirati dalla filosofia di Oswald Spengler, autore de Il tramonto dell’Occidente (1918-1923) e di Anni della decisione (1933), mentre la sua concezione politica era debitrice di un libro che lui stesso suggeriva come lettura agli studenti che gli erano più vicini: I fondamenti del XIX secolo (1899) di Houston Stewart Chamberlain. Da adolescente, lesse l’anarchico russo Pëtr Alekseevič Kropotkin. Più tardi, insieme a Immanuel Kant, Max Stirner, Edmund Husserl e Martin Heidegger, studiò i Padri della Chiesa nella Patrologia di Jacques Paul Migne e imparò l’ebraico, essendosi interessato alla Kabbalah.

Ha avuto modo di consultare le carte e i libri della biblioteca del Professore, o almeno di sapere che fine hanno fatto?

La casa di Nae Ionescu è stata confiscata dopo la sua morte e una parte dei suoi libri di patristica e teologia è stata recuperata dal Patriarcato ortodosso romeno. Altri volumi sono stati, forse, tratti in salvo da suo figlio. Non esiste un inventario completo né approssimativo della sua biblioteca.

Il suo libro ha venduto molto in Romania, nonostante la pandemia. Come hanno reagito i critici, in genere?

Il genere biografico che cerco di promuovere rappresenta una novità in Romania; di solito, la critica non sa bene dove collocarlo, perché non si tratta né di biografie romanzate né di monografie storiche. La qualità sottolineata da molti critici è una particolare “vitalità” del libro e la sua formula letteraria “insolita”. Il principale rimprovero mosso allo studio è stato di non aver dato più spazio alla filosofia vitalista di Nae Ionescu e alla sua fede cristiano-ortodossa. Una curiosa tautologia: avrei scritto della sua vita senza concedere troppo spazio al suo vitalismo…

Nessun secolo come il XX ha conosciuto l’incontro-scontro tra “politica” e “intellettuali” (penso a Heidegger, Giovanni Gentile, Miguel de Unamuno…). Nel caso di Nae Ionescu, in che rapporto stanno filosofia e impegno politico, “contemplazione” e “azione”, per così dire?

Da un lato, il coinvolgimento politico rientra nella sua stessa concezione, finalizzata a recuperare la dimensione esperienziale del “vissuto” rispetto al “pensiero”, che di solito caratterizza la vita di un intellettuale. Dall’altro, nel suo caso ci troviamo di fronte a una concezione romantica della politica, della nazione e della comunità. Al pari di molti altri pensatori, concepiva la politica in termini ideali e idealisti, e per questa ragione era predisposto al pensiero utopico. In genere, si può dire che fosse una personalità complessa, istrionica e magneticamente attratta dal potere.

Lei definisce Ionescu «un illusionista geniale e un talentuoso prestigiatore di parole, in grado di controllare, attraverso il raffinato fascino di maschere scambiate con grazia erotica, anime sensibili e menti assetate di conoscenza». Qual è stato, secondo lei, l’errore che ha fatto inceppare tutto?

A Nae Ionescu è successo ciò che accade spesso ai pensatori utopisti: cercando di mettere in pratica teorie e grandi costruzioni speculative, si scontrano, presto o tardi, con il cosiddetto reality test. L’impatto dell’ideale con il reale è un po’ come un brusco risveglio. Orbene, come diceva C. S. Lewis, la realtà è sempre iconoclasta nei confronti delle idee preconcette a cui vogliamo sottoporla.

Dal 1933 in poi, i destini di Nae Ionescu e Corneliu Zelea Codreanu si intrecciano sempre più. Lei ha dedicato una biografia al Capitano, uscita pochi mesi prima della pubblicazione, sempre per i tipi di Humanitas, della monografia di Oliver Jens Schmitt Corneliu Zelea Codreanu. Ascensiunea și decăderea “Căpitanului” (Corneliu Zelea Codreanu. Ascesa e declino del “Capitano”), che inquadra la Legione dell’Arcangelo Michele nella prospettiva dei fascismi europei. Che ritratto ne ha fatto? Cosa differenzia il suo lavoro da quello dello storico svizzero?

La principale differenza tra il mio approccio e quello di Oliver Jens Schmitt, oltre al già citato scarto che oppone uno storico a uno scrittore, è che lui vede il movimento legionario e Codreanu come prodotti originali della cultura cristiano-ortodossa romena. Io, invece, ritengo di avere motivi fondati per considerarlo un movimento sincretico, nato in un periodo colmo di iniziative ecumeniche europee, spronate dagli esiti disastrosi della Prima guerra mondiale. Codreanu, del resto, non aveva solo radici romene. Suo padre si chiamava Zelinski, mentre sua madre era di origine tedesca. Nel mio libro Mistica rugăciunii și a revolverului. Viața lui Corneliu Zelea Codreanu (Mistica della preghiera e della pistola. Vita di Corneliu Zelea Codreanu) ho dimostrato che il breviario più celebre dei giovani legionari – Cărticica șefului de cuib (Il Capo di Cuib) – trae ispirazione da Il pellegrinaggio del cristiano (1678) di John Bunyan, tradotto in romeno agli inizi del XX secolo. Poiché la Romania era governata da una monarchia germanico-britannica, il modello militare prussiano e il movimento scout, fondato dal generale Baden-Powell – assimilato in seguito anche da movimenti di estrema destra –, erano divenuti, ai tempi della carriera scolastica di Codreanu, un modello educativo nelle scuole elitarie, come quella in cui aveva studiato lui. Alla vigilia della Grande Guerra, il primo comandante delle legioni di cercetași (boy scout) romeni è stato il Principe erede Carol, ossia il futuro Re Carol II.

Per concludere, in base alla mole di documentazione che ha avuto modo di raccogliere, che idea si è fatta di Ionescu? Qual era la sua “aura”, per così dire?

Per me, Nae Ionescu è una personalità contraddittoria, tanto affascinante quanto tragica. Alla sua morte, nel 1940, alcuni lo hanno rimproverato di essere un filosofo senza opera, altri di essere un pensatore privo di lucidità politica. Come tanti intellettuali, si è lasciato attirare dai fantasmi del potere politico-religioso. Se dobbiamo parlare di “aura”, nel caso di Ionescu non era certamente troppo luminosa. Le sue contraddizioni interne emergono ovunque, nel corso della sua esistenza. Ma, che piaccia o no, è stato il mentore faustiano della brillante generazione interbellica: Mircea Eliade, Emil Cioran, Mihail Sebastian, Eugen Ionescu, Mircea Vulcănescu…

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