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“L’Unità è una storia meravigliosa”, “sarà curioso anche Antonio Gramsci”, “torna una grande voce”, “un punto di vista autorevole”. Con un video semicolto e strappalacrime Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pierluigi Bersani e Guglielmo Epifani hanno accolto trionfanti il ritorno in edicola del quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci, all’epoca segretario del Partito Comunista Italiano. Quel giornale operaio divenuto clandestino dopo essere stato messo fuori legge nel 1926 si è trasformato oggi nel foglio del regime pop-dem di Matteo Renzi.

Marco Travaglio in un editoriale intitolato “Tutto va ben madama l’Unità” ha riassunto così l’operazione editoriale di Erasmo D’Angelis, nuovo direttore e uomo di fiducia del premier: “dire che la nuova Unità è il primo monumento equestre a Matteo Renzi e che, al confronto, la Pravda con il Pcus era un filino più sbarazzina, sarebbe riduttivo. La linea editoriale è molto più ambiziosa: Ottimismo Obbligatorio. Va tutto molto bene, e domani andrà ancora meglio”. In fondo la foto promozionale del ministro Maria Elena Boschi, figlia di un banchiere, mentre sfoglia sorridente il primo numero dice tutto sulle finalità politiche de “l’Unità”: fare da milizia spirituale del potere temporale di Matteo Renzi.

Lo stesso Antonio Gramsci aveva teorizzato la figura dell’“intellettuale organico” che mira all’egemonia culturale “mescolandosi attivamente alla vita pratica” fino a diventare “dirigente politico”. Pertanto il prodotto editoriale dei democratici – dopo aver affossato un anno fa il giornale per poi ridarlo alle stampe – assomiglia ben poco al progetto gramsciamo, semmai si avvicina di più a quello di Togliatti, il quale, contestato da Elio Vittorini in una storica polemica, parlava di “intellettuale mosca cocchiera del partito”. “L’Unità” sembra di fatto un opinionismo di connivenza, mondano, incestuoso, dove giornalismo, politica e spettacolo si mescolano per raccontare lo storytelling dell’Italia nuova e renziana. La crescita dello 0,1 per cento, il Jobs Act, la legge elettorale, vengono rivelate al pubblico con enfasi, passionalità, veemenza, illudendo il popolo sempre meno popolare di sinistra, che il “nuovo principe” profetizzato da Gramsci è giunto fino a noi. Si realizza così quel disegno di marketing raffigurante Matteo Renzi, un politico che si è formato alla vecchia scuola partitica, come un riformatore che parla il linguaggio dei populisti nelle sedi istituzionali. “L’Unità”, seduta dalla parte della ragione ma con fare clandestino, fungerà da megafono dell’establishment democratico. Alcuni storici accusano il PCI di allora di aver volontariamente lasciato languire Antonio Gramsci in prigione salvo poi innalzarlo da eroe. Il presente ci rivela invece chi lo ha ucciso per una seconda volta: i convertiti sulla via del renzismo.

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