La nuova via africana (e della Seta) del Re Mohammed VI
RABAT – Con le cosiddette “primavere arabe” abbiamo visto cadere tutta una serie di governi autoritari, laici, socialisti, in buona parte retti dallo stesso Occidente, e successivamente si è materializzata la conquista del potere di movimenti religiosi conservatori sostenuti da vecchie e nuove potenze regionali e globali. Così all’indomani dei sollevamenti popolari, in particolare nel Nordafrica, si sono così affermati – tra il 2011 e il 2015 – personalità legate a doppio filo con l’Islam politico – o islamismo – ideato da Hasan Al Banna nel 1928, poi evoluto nella potente organizzazione dei Fratelli Musulmani, che aveva un’agenda molto precisa promossa sul piano mediatico dall’emittente televisiva Al Jazeera, di proprietà del Qatar, grande sponsor della Fratellanza, e diventata in quegli un vero e proprio megafono del grande disordine regionale sotto la cupola della dottrina Obama (ormai, nel 2019, ampiamente superata da quella di Trump).
In mezzo a questa fase di destabilizzazione due Paesi della regione nordafricana sono rimasti illesi: l’Algeria e il Marocco. Se il primo si è chiuso in sé stesso, il secondo invece ha sfruttato il cambio di paradigma geopolitico per ampliare la sua sfera di influenza con una precisa strategia politica, economica e diplomatica. Il Marocco infatti, pur vedendo l’ascesa del partito conservatore e legittimista “Giustizia e Sviluppo” che ha vinto le elezioni legislative nel 2012 – prima col suo leader Abdelilah Benkirane diventato capo del governo fino al 2017, poi con un esponente della stessa formazione politica, Saadeddine Othmani, nonché attuale primo ministro – è riuscito a proteggere la sua integrità politica e tenere in piedi la monarchia costituzionale. L’intelligenza della Corona fu proprio quella di attuare delle riforme costituzionali subito dopo l’inizio della rivolta, già nella primavera del 2011.
Forte delle sua stabilità politica il Marocco è riuscito così a elaborare un progetto statuale di medio e lungo termine interpretando le nuove meccaniche geopolitiche globali legate all’Africa e conquistando quello spazio egemonico continentale che prima della caduta della Jamahiriya libica per mano di francesi, inglesi e americani apparteneva al Colonnello Muammar Gheddafi. Da qui si spiegano molte iniziative personali del Re Mohammed VI che negli ultimi anni ha viaggiato senza sosta in tutta l’Africa, in particolare quella occidentale, per firmare accordi bilaterali e allargare la sua proposta al resto del continente, scommettendo sul decollo economico dell’Africa che alcuni vedono come il polo emergente dei prossimi decenni. Questo cambio di prospettiva, rafforzato con la riammissione del regno nell’Unione Africana nel 2017, dopo 33 anni di assenza, va di pari passo con la volontà della Corona di sganciarsi progressivamente dalla dipendenza quasi “morale” all’Arabia Saudita – di recente il governo di Rabat non solo si è ritirato dalla coalizione che combatte in Yemen ma nel tour del mondo arabo compiuto dal principe ereditario Mohammed bin Salman si è persino sfilato come tappa di viaggio – e di sfruttare la sua posizione geografica nonché la sua specificità religiosa chemescola scuola malikita di giurisprudenza islamica, credo teologico asharita e sufismo.
Non a caso tra gli investitori africani subito dopo il Sudafrica c’è proprio il Marocco attivo già in 30 Paesi principalmente nei settori dei servizi finanziari, (53%), le telecomunicazioni (17%) tramite Maroc Telecom, l’industria (11%), delle holding (5%), e tutto ciò che si lega assicurazioni, agricoltura, pesca e artigianato. Questo interventismo in ambito economico non è fine a sé stesso ma supportato da una strategia politica e diplomatica precisa, che mira far diventare il Marocco un Paese guida per i partner africani, nonché un modello di stabilità territoriale. Per instaurare un rapporto paritario la demografia e la gestione dei flussi migratori restano un punto imprescindibile per favorire la pratica del “buon vicinato”. Ahmed Skim, è capo dipartimenti degli Affari Migratori del governo marocchino, tra i firmatari del patto di Marrakesh (criticato da molti) ha lavorato in questi anni affinché il prossimo Osservatorio migratorio africano abbia sede a Rabat: “controlliamo sia le nostre frontiere marittime che quelle desertiche, sradichiamo le cellule terroristiche all’interno e di trafficanti di uomini alle frontiere, tuttavia abbiamo studiato un modello di integrazione e naturalizzazione (i numeri sono bassi, qualche decina di migliaia l’anno, ndr) per tutti quegli africani che scelgono il Marocco come Paese di destinazione e non di transito – racconta in esclusiva – ma uno degli obiettivi che ci siamo posti è proprio quello di investire nella formazione affinché chi scappa dalla guerra può tornare nel suo Paese di origine con nuovi strumenti e conoscenze professionali”. Una politica severa ma giusta, che in fondo si impegna a non svuotare le nazioni africane delle sue forze vive, coloro che possano lavorare per l’emancipazione reale e non vivere nell’assistenzialismo.
In fondo, gli accordi bilaterali servono proprio a questo: contenere un flusso migratorio incontrollato. Per farlo la religione è un elemento imprescindibile. Nel mondo musulmano africano il Re Mohammed VI ha una forza di seduzione legata alla sua discendenza diretta con il Profeta Maometto. E in questo solco nel marzo 2015 è nato a Rabat l’Istituto Mohammed VI per la formazione degli Imam, un vero e proprio laboratorio religioso con l’obiettivo di “infondere i valori dell’Islam marocchino alle nuove generazioni con un’attenzione particolare agli studenti di origine africana, e l’anno successivo, nel giugno del 2016, è stata inaugurata anche la Fondazione Mohammed VI per Ulema africani, pe rafforzare i rapporti di lungo periodo tra il Marocco e i suoi vicini africani, e che raggruppa 120 studiosi musulmani da più di 31 Paesi del continente, selezionati sulla base della preparazione teologica e della conoscenza della legge islamica. “La maggior parte dei ragazzi di questo istituto sono africani, il nostro lavoro consiste nel dare loro gli strumenti necessari alla predicazione e incoraggiarli a tornare nel loro Paese di origine per diffondere la loro conoscenza a chi non ha avuto questa possibilità” ci racconta in esclusiva nel suo studio Abdessalam Lazaar, direttore dell’Istituto Mohamed VI per la formazione degli Imam, e che di recente è anche stato il luogo che ha ospitato Papa Francesco nella sua visita in Marocco. “In qualità di professore e girando per conferenze in tutto il mondo, mi capita spesso di viaggiare in Paesi dove predicano i miei vecchi studenti africani e i riscontri sono sempre stati positivi, il nostro modello funziona”, spiega Abdellah Cherif Ouazzani, teologo e professore di pensiero islamico e scienza dell’educazione.
Questa proiezione teologico-educativa coincide perfettamente con la transizione geostrategica che sta vivendo il Paese in una logica Sud-Sud. “La geografia rende il Marocco un partner essenziale per l’Europa, gli Stati, il mondo arabo-musulmano, il continente africano, e negli ultimi anni abbiamo visto la volontà di coinvolgere e rafforzare nuove partnership nel quadro di una diplomazia multipolare, stringendo accordi con la Cina, la Russia, l’India e alcune nazioni dell’America Latina. E pur avendo rapporti con tutti, il Re ha sempre voluto rivendicare con forza i suoi principi di indipendenza e convinzione”, racconta Ali Moutaib, membro del think tank marocchino Hyperborée. Tuttavia nell’ultimo decennio c’è stata una propensione spiccata verso l’Africa e pur non avendo mai tagliato con le sue radici continentali, il Regno ha rafforzato la sua azione cominciando dalla reintegrazione nell’Unione africana e nell’ormai prossima adesione all’Ecoeas e applicando un sistema reciproco di sviluppo attraverso accordi bilaterali con tutti i Paesi africani impegnandosi nella diplomazia economica e spirituale con un’intensa implicazione nella gestione dei flussi migratori, la deradicalizzazione e la lotta al terrorismo.
Proprio per questa ragioni “panafricaniste”, la Repubblica Popolare Cinese, che come sappiamo è sempre più in Africa,ha voluto con forza l’adesione del Re alla Nuova Via della Seta (memorandum è stato firmato il 17 novembre 2016), il grande progetto di espansione commerciale voluto dal presidente Xi Jinping. L’obiettivo sembra quello di far diventare il Paese “un hub per un partenariato tripartito tra Marocco, Cina e Africa” come aveva il passato sottolineato il ministro dell’energia, delle miniere e dello sviluppo sostenibile Aziz Rebbah, e allo stesso modo un “ponte culturale” nonché un polo strategico per gli scambi e gli investimenti tra questi due mondi. A fare da punto di congiunzione di questo nuovo sodalizio sarà il porto di Tanger, da poco inaugurato, che si trova su una delle principali rotte del commercio mondiale, e che si appresta a diventare il più grande del Mediterraneo e per la sua posizione marittima strategica, punta a diventare uno dei tre grandi hub economici mondiali con Shanghai e Panama. La grande promessa di cooperazione sino-marocchina è il progetto faro denominato Mohammed VI Tanger tech: più di 10 miliardi di dollari di investimento in dieci anni per costruire la città del futuro. Ma dietro i flussi di denaro versati da Pechino c’è il reale interesse nell’inserimento indiretto del Marocco nella Nuova Via della Seta, in una logica africana prima ancora che orientale. Le rotte del Sud passano da Rabat, non solo commerciali, ma culturali. Perché non sempre è lo sviluppo a fermare l’emorragia del fondamentalismo religioso bensì una strategia precisa di re-spiritualizzazione delle società tradizionali. Non a caso tra i membri della Task Force Cina-Marocco c’è Mostafa Rezrazi, uno dei massimi esperti marocchini e mondiali di radicalismo. Psicologo, conferenziere, professore, Mostafa Rezrazi gira tra università e carceri per raccontare agli studenti e applicare agli ex terroristi il suo “metodo di deradicalizzazione”.