Con Livio abbiamo viaggiato molto. In Europa, in Africa, in Asia. Ma c’è un soggiorno, un itinerario in particolare che (ad ambedue) è restato piantato nel cuore, nell’anima: il Vietnam, 2014. Non a caso. Per la prima volta dopo il 1975 il Direttore tornava in uno dei Paesi che più aveva amato, nonostante la guerra e tutti gli orrori. Per anni aveva raccontato con penna sapiente il naufragio dell’esercito americano, l’avanzare inesorabile dei nord vietnamiti, il collasso del regime sudista, i massacri comunisti, le ipocrisie occidentali. Appena poteva, da vecchio granatiere, saliva in prima linea, accanto ai soldati, tra le bombe e le pallottole. E scriveva, fotografa, analizzava, capiva. E talvolta si divertiva. Piccolo anedotto: durante una pattuglia di marines

a cui era aggregato si era dilettato a lanciare qualche granata sui viet. «Ero un conservatore molto armato», ammise sorridendo.

Già, Livio mente libera e brillante ma soprattutto uomo di convinzioni profonde, uomo coraggioso e anticonformista. Lo saluto con l’incipit di un capitolo di un mio libro, dedicato proprio a Lui e all’Indocina di ieri e di oggi. Tutto iniziò a Saigon con una splendida cena nel “suo” albergo….

 

 

«Dalla terrazza dell’Hotel Majestic vedo scorrere nella notte un corteo di motorette. Un fiume luminoso, assordante, inarrestabile. A Saigon — centomila più, centomila meno — sono circa cinque milioni. Livio Caputo innalza le folte sopracciglia e sorride: «è la stessa immensità umana di quarant’anni fa, ma allora si usavano biciclette e nel cielo ronzavano gli elicotteri americani, tutto cambia. Anche i rumori».

Non è per caso che Livio — quarant’anni dopo il suo ultimo reportage nel Vietnam in fiamme — abbia voluto portarci qui, al Majestic, l’ultimo orgoglioso testimone di un tempo passato. Stesso ambiente belle époque, stesse musiche languide, stesso panorama sul fiume. Sullo sfondo, sfumate, occhieggiano le ombre di Graham Greene e Jean Laterguy…

Presto il vecchio albergo — al tempo ritrovo dei corrispondenti stranieri — sarà abbattuto per far posto, nel cuore di ciò che resta dell’antico quartiere europeo, a un nuovo futuribile grattacielo in vetro e cemento, un altro scintillante mostro senz’anima. Meglio non pensarci e, in questa serata di primavera, godersi l’orchestrina filippina che, con scalcagnata dignità, suona motivi dei Sessanta e ascoltare i racconti di Caputo. Sulla guerra, sulla vita, sull’amore. Sulle meravigliose follie di Oriana, sui miraggi crudeli di Terzani, sulle comode viltà di Bocca e Biagi. Storie di ieri.

Riflettiamo, mentre l’impomatato cantante intona per l’ennesima volta My Way, sulla quasi assenza al sud di memorie di trent’anni di guerra. Non vi è praticamente più traccia. Per ricordare quella lunga follia costata tre milioni di morti, i vincitori venuti dal nord hanno ribattezzato la città Ho Chi Minh City — un nome che qui nessuno usa, per tutti Saigon rimane Saigon — , eretto qualche monumento e aperto un museo visitato da scolaresche e turisti. Un brutto cubo zeppo di belle fotografie di Life e Times, qualche residuo bellico, manifesti di propaganda.Poca roba.

Livio sorride e ricorda. Sotto di noi scorrono Dong Khoi, la via dell’Insurrezione, un tempo rue Catinat, il boulevard Charner, oggi Nguyen Hue, la rue Impérial, l’attuale Hai Ba Trung, su cui si affacciano l’Operà, la Posta centrale progettata da Gustave Eiffel, il municipio, la cattedrale neogotica di Notre Dame. Le architetture ricordano Nizza, Cannes, Parigi, il lungofiume è un frammento di Costa Azzurra. «I francesi, quando arrivarono nella metà dell’Ottocento, si convinsero di poter trasformare questo paese, così complesso e insondabile, in un dipartimento di Parigi», annuisce Caputo «certi di restare, per quasi un secolo, con logica cartesiana e ottimismo illuminista, continuarono ad investire, costruire, guadagnare, combattere. Senza requie, senza dubbi. Non compresero, o non vollero capire che la storia scorreva veloce e il loro tempo — il tempo dell’Europa coloniale — stava finendo. Si risvegliarono solo nell’inferno di Dien Bien Phu. Ma era troppo tardi».

Già, Dien Bien Phu, la terribile trappola che sessant’anni fa inghiottì con voracità il Corp Expéditionnaire Française en Extreme Orient, il CFEO, il meglio dell’Armée. Dien Bien Phu, un nome — come le Termopili, Salamina, Waterloo, il Piave, El Alamein — che non cessa d’intrigarmi. Piccole manie di uno storico dilettante. Questa volta, però, mi ritrovo in buona compagnia. Domani Livio, Mara ed io partiamo verso il nord».

 

 

(Da Confini & Conflitti, Eclettica 2015)

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