Premessa

In questo post si parlerà di libertà e questo eticamente richiede di dichiarare la propria posizione. Sono liberale. Sono tifoso del Bari (società controllata dalla Filmauro che a sua volta controlla il Napoli di cui parleremo più avanti) e simpatizzo per il Milan. Ciò di cui scriverò non mi vede pertanto neutrale né sportivamente né politicamente.

La nuova formula

Questo post, ovviamente tratterà della Super League, il sistema a franchigie sostitutivo della Uefa Champions League che avrebbe dovuto vedere partecipanti fissi indipendentemente dal piazzamento nei rispettivi campionati: Arsenal, Atlético Madrid, Barcellona, Chelsea, Inter, Juventus, Liverpool, Manchester City, Manchester United, Milan e Tottenham. La formula avrebbe dovuto prevedere due gironi all’inglese di dieci squadre con partite di andata e ritorno. Le prime quattro classificate di ciascun girone avrebbero dato vita a quarti, semifinali e finalissima a partita unica a differenza dei due turni precedenti.

Un totale di 193 partite ad alto tasso tecnico che la banca americana Jp Morgan valutava già in partenza 3,5 miliardi di euro da dividersi in massima parte tra i fondatori con possibilità di incrementare ulteriormente i ricavi derivanti da diritti tv, sponsor e merchandising. A regime non sarebbe stato difficile prevedere per le 12 «sorelle» ricavi di default compresi tra 200 e 250 milioni di euro con la possibilità di incrementarli procedendo nella competizione. Questa era, infatti, l’equazione:

ricavi stabili → aumento investimenti → ulteriore incremento dei ricavi → utili prospettici

Le condizioni iniziali

L’idea di una «Superlega» già da qualche anno era oggetto di discussione tra i top team europei visto che la Uefa non riesce attualmente a garantire introiti in grado di compensare i massicci investimenti necessari per allestire squadre vincenti a livello continentale e globale. Ecco perché è necesario vedere quale sia la disproporzione tra ricavi e indebitamento lordo dei 12 top team cui ho aggiunto il Napoli che probabilmente sarebbe stata la quarta squadra italiana invitata in alternanza con la Roma.

Tutti i top team hanno un indebitamento mostruoso al 30 giugno 2020 (7,866 miliardi di euro) se confrontato con i ricavi (5,767 miliardi), peraltro tagliati dalla chiusura degli stadi a causa della pandemia. Un impatto che Deloitte ha calcolato in 800 milioni complessivamente  per i 20 top team europei. Gli 1,25 miliardi di indebitamento del Tottenham sono legati in buona parte alla ristrutturazione dello stadio di White Hart Lane, una spesa che finora non ha fruttato risultati causa eventi a porte chiuse. Gli 1,17 miliardi del Barcellona hanno per metà un nome e un cognome Lionel Messi e per l’altra metà il trading di calciatori costosi che però non hanno portato Champions League come Antoine Griezmann. Lo stesso discorso vale per la Juventus che ha tratto giovamento limitato da Cristiano Ronaldo. L’Inter, che guida il campionato italiano, aveva un debito complessivo di 871 milioni a fine giugno 2020 perché l’ingaggio di stelle come Romelu Lukaku, Niccolò Barella, Alexis Sánchez e Christian Eriksen ha comportato esborsi notevoli. Il supporto dell’azionista principale Suning sta per terminare perché il governo cinese ha deciso di frenare l’esportazione di valuta all’estero. I 115 milioni del Milan sono legati al ripianamento dell’azionista, l’hedge fund Elliott che ha coperto la perdita monstre di 194 milioni di euro dell’anno scorso, stagione tra l’altro caratterizzata dall’esclusione dall’Europa League per mancato rispetto del fair play finanziario. L’unica che non fa parte del club è l’unica a non aver debiti perché il Napoli con la partecipazione alla Champions e una gestione oculata è riuscito ad autofinanziarsi. A discapito, ovviamente, dei risultati sportivi. Quest’anno non ha partecipato alla massima competizione continentale.

Una struttura costi non sostenibile

Come si vede da questo grafico del Financial Times i top team spendono troppo per gli stipendi dei calciatori. Quella del Milan è un’anomalia legata al calo dei ricavi. Nella stagione corrente (90 milioni di euro) spende meno dell’Inter (149 milioni) e della Juve (236 milioni) con un monte ingaggi di circa 90 milioni di euro. Ma la mancanza dall’Europa che conta negli ultimi otto anni ha svilito l’appeal del «diavolo». Tutte le altre viaggiano su una media stipendi compresa tra il 60 e il 70% degli introiti. Valori che per una qualsiasi società industriale non sarebbero compatibili con una sana e prudente gestione. Ma il calcio è così: se non si spende, difficilmente si riesce a vincere. Sebbene, come dimostra l’Atalanta (42,6 milioni di stipendi), le spese non sempre significhino vittoria. Comunque, per farla breve, un margine operativo lordo (differenza ricavi-costi) positivo è spesso un miraggio visti questi parametri. La crescita dei debiti dei top team ci dice che bruciano cassa, ossia che non riescono a essere sostenibili finanziariamente. Vi risparmio la litania sulle plusvalenze di bilancio con gli scambi di calciatori perché sicuramente vi hanno già ammorbato sul tema. Prendo solo la Juve come esempio solo perché è quotata e dunque i bilanci hanno ampia pubblicità: gli scambi Cancelo-Danilo col Manchester City e Pjanic-Arthur col Barcellona hanno comportato una sovrastima del valore di mercato dei rispettivi calciatori per far emergere plusvalenze in grado di limare il rosso di bilancio. È una prassi, così fan tutti.

La necessità della Super League

Il modello a franchigie della Nba o dell’Eurolega di basket avrebbe risolto queste problematiche. La vittoria della Champions League non è una panacea di tutti i mali. Il massimo torneo continentale di calcio vale tra gli 1,5 e i 2 miliardi di euro che si spartiscono tra le 32 squadre partecipanti accontentando anche i piccoli come gli ungheresi del Ferencvaros o gli svizzeri dello Young Boys quando riescono a parteciparvi qualificandosi da i turni preliminari. Come ha fatto notare il presidente della Juve ed ex presidente dell’Eca (l’associazione dei top club europei), Andrea Agnelli, la Nfl di football americano mobilita 5 miliardi di euro ma ha un bacino di utenza globale pari a un decimo di quello del calcio. Dunque è palese che lo sport più popolare al mondo non sappia valorizzarsi adeguatamente, non riesca a essere un vero business se non per le società che proliferano sui settori giovanili come l’Ajax.

La Super League avrebbe risolto i problemi dei top club, quelli che ci fanno divertire quando guardiamo una partita di calcio o quando andiamo allo stadio. Real, Barcellona, Atlético e City avrebbero incrementato ulteriormente gli introiti. Tutte le altre sarebbero state sicure della partecipazione alla massima competizione continentale. Inter e Milan con quel denaro avrebbero potuto pianificare la ristrutturazione di San Siro o, in caso contrario, costruire lo stadio di proprietà. L’Italia, inoltre, avrebbe avuto la migliore rappresentanza possibile in Europa con le tre vincitrici della Champions presenti di diritto senza dover maledire il pareggio col Crotone o la sconfitta col Benevento e con lo Spezia.

La demagogia nemica della libertà

Come avrete letto se siete arrivati fin qui di questa vicenda ho scritto al passato. La Super League è morta prima di nascere. Poco dopo la mezzanotte di oggi 21 aprile le sei squadre inglesi si sono ritirate dal progetto. Il presidente del Real Madrid, Florentino Pérez, le ha accusato di aver intascato soldi dall’Uefa per rinunciare al progetto, mentre analoga offerta non sarebbe stata rivolta ai team spagnoli. I team italiani non ne escono benissimo, hanno caldeggiato la proposta ma hanno beccato solo le critiche di Uefa, Fifa e di tutto il mondo politico italiano ed europeo. Le forti pressioni politico-mediatiche, non ultime quelle dei tifosi inglesi adirati per lo svilimento della Premiership sono stati determinanti. L’iniziativa individuale è stata un’altra volta svilita dalla sovrastruttura marxista-statalista-europeista secondo cui è sempre meglio dividere le povertà che moltiplicare le ricchezze.

La Super League sarebbe stata moderatamente generosa con i campionati nazionali dei singoli partecipanti. Chiaramente le competizioni domestiche avrebbero perso un po’ di appeal giacché la vittoria non avrebbe significato automaticamente partecipazione alla super League come già accade oggi nel basket. Anche perché, diciamocelo, Juve, Milan e Inter rappresentano il 65% della fan base calcistica italiana e con le partecipazioni alternate di Roma e Napoli, più di tre quarti dei tifosi italiani avrebbero avuto soddisfazione. C’è solo da sperare che economicamente sappiano trarne qualche vantaggio perché politicamente è stata una débâcle: dall’essere riconosciute come imprescindibili per una competizione europea di alto livello a cornute e mazziate senza passare dal via.

La demagogia del finto merito sportivo ha prevalso. Senza Super League, infatti, ci rimettono quelli che tengono su la baracca consentendo ai cosiddetti «poveri» di proseguire la loro attività. Ecco, non illudetevi che abbia vinto la possibilità per tutti di vivere la «favola del ChievoVerona». Ha vinto la burocrazia, hanno vinto i funzionari, hanno vinto i localismi cioè la piccola politica che consente a Alexander Ceferin della Uefa e a Gianni Infantino della Fifa di prosperare legandosi alle microcordate che poi a livello europeo e mondiale diventano via via grandi serbatoi di interessi particolari. Ha vinto quel modello che ogni giorno vediamo plasticamente incarnato nell’Unione Europea, questa volta con la rentrée della Gran Bretagna.

Adesso si riproporrà lo status quo. Le squadre di testa, non tutte, saranno obbligate a investire (quando potranno) senza ottenere ricavi congrui dalla partecipazione alle manifestazioni principali. Ovviamente i team con proprietà solide (e arabe) come Manchester City e Paris Saint Germain potranno continuare a farsi beffe del financial fair play «inventando» sponsorizzazioni da parti terze correlate con la controllante per tenere in equilibrio fittizio entrate e uscite. Le altre big dovranno fare di tutto per qualificarsi alla Champions (sempre con il rischio di restarne escluse), creare il massimo possibile di plusvalenze e andare avanti con le tournée estive in America e Asia (quando si potranno riorganizzare) che spezzano la preparazione ma garantiscono risorse.

Il colpo di Stato al contrario

È stato fatto un colpo di Stato. Si va a ledere il diritto che il più debole possa farsi strada, è come se un figlio di un operaio non possa sognare di fare il chirurgo o l’avvocato.

 

L’allenatore del Sassuolo, Roberto De Zerbi, ci è andato giù pesante. Il tweet del nostro collega del Giornale, Franco Ordine, vale più di qualsiasi altra risposta

 

Questi piccoli miracoli sono possibili proprio grazie alla presenza delle big che, nel bene e nel male, movimentano il mercato, creano attenzione e danno la possibilità ai piccoli club di lanciare e rilanciare calciatori che nelle grandi non hanno fatto benissimo come l’ex Milan Manuel Locatelli, ad esempio. Che grazie a De Zerbi ora vale 40 milioni di euro.

La dipartita delle tre big, ovviamente, avrebbe fatto collassare tutto il «giocattolo». Immaginatevi sempre la solita Juve che non deve preoccuparsi di perdere col Sassuolo per centrare l’obiettivo Champions. In una serie A siffatta prima o poi qualcuno si domanderebbe se valga la pena di continuare a tenere in posizioni top nobili club ma che non garantiscono stadi pieni e fan base. In una Serie A dove il Milan sia finalmente liberato dall’incubo della «fatal Verona», magari ci si chiederebbe che senso abbia rinunciare a piazze importanti come Bari, Palermo, Catania, Brescia e Padova.

La retorica di De Zerbi è la retorica della «classe operaia va in Paradiso», la stessa che i tifosi britannici hanno utilizzato mostrando di gradire più la sfida con il malconcio Stoke City che con il Real Madrid se non guadagnata sul campo. E così si sono accomunati ai super-agenti Mino Raiola e Jorge Mendes, quelli che intascano commissioni di elevata entità, ogni volta che spostano da una squadra all’altra uno dei loro assistiti come Paul Pogba o CR7. Anche loro si sono lamentati della creazione della Super League ma solo perché non sono stati preventivamente coinvolti nel nuovo business nel quale ovviamente avrebbero dovuto avere l’ultima parola, così come accade oggi nel sistema Ceferin-Infantino. Un sistema nel quale l’operaio di Liverpool o di Manchester fa finta che conti esclusivamente il merito e che il calcio traduca in atto quei valori che la quotidianità sospende o rinnega.

Ma a noi piace raccontare la storiella del merito sportivo. Ci inebriamo con il terzomondismo alla Osvaldo Soriano o alla Eduardo Galeano. Ci piace sporcarci con il calcio proletario di Nick Hornby. E allora beccatevi questo.

Da sinistra verso destra: Jamie Vardy, centravanti del Leicester ultimo campione «povero» d’Inghilterra, Josip Ilicic, da scarto di Firenze a re delle notti Champions dell’Atalanta e infine Mislav Orsic della Dinamo Zagabria, tripletta al Tottenham e giustiziere di José Mourinho.

Questo è il calcio che vi piace, quello in cui la Cavese vince a San Siro col Milan in serie B. Beh, sappiate che il calcio che vi piace è quello che dietro la finta moralizzazione del fair play finanziario ha consentito a Manchester City e Paris Saint Germain degli sceicchi di farsi beffe delle regole e che invece ha tenuto Inter e Milan a stecchetto. Il calcio che vi piace è quello in cui la Juve rischia di non fare la Champions perché ha perso in casa col Benevento. Il calcio che vi piace è quello della Lazio umiliata dal Bayern Monaco o della magica Atalanta annichilita dal Real Madrid. Però, l’importante è che Carpi e Treviso possano fare una gita in Serie A, magari sotto lo sguardo compiaciuto di Ceferin e Infantino. Perché il calcio funziona al contrario del tennis: nel nostro caso sono Djokovic, Nadal e Federer a dover pagare per giocare…

Gian Maria De Francesco

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