«Gli uomini s’ingannano nel credersi liberi». Lo scriveva, nella seconda metà del Seicento o giù di lì, il filosofo olandese Baruch Spinoza. Che poi, per spiegare come sbarazzarsi delle illusioni ed essere veramente liberi, apriva una via tutta razionale all’autodeterminazione: «Il condizionamento fa parte dell’essenza dell’uomo, ma è possibile liberarsene con un uso corretto della ragione».

Pensava a come tenersi alla larga dalla prigionia degli affetti, ma non poteva neppure lontanamente immaginare, lo speranzoso Spinoza, che le catene della prigionia sarebbero state serrate ai piedi dei suoi discendenti per un semplice disegno. Per una faccina. Si chiamano emoticon: i giovanissimi ne fanno un uso smodato, sostituendo con una smorfia virtuale interi pezzi di conversazione. Gli adulti si sono adeguati di buon grado, e non di rado – anzi sempre più spesso – capita di ricevere messaggi e comunicazioni chiuse da una sequenza di due punti, un trattino ed una parentesi chiusa che si trasformano in un sorriso.emoticons-sad_ok

Quasi una banalità, nell’era della tecnologia. Eppure, alquanto insidiosa. Al punto da portare dritto dietro le sbarre. È successo ad un tizio di Ragusa, di suo non proprio uno stinco di santo. Per aver mancato nei riguardi della giustizia era finito ai domiciliari. Ma da casa aveva continuato a parlare col resto del mondo, seduto davanti ad una tastiera. Chattava e navigava, l’ignaro recluso condominiale, inconsapevole del destino che lo attendeva. Un bel giorno a casa sua sono tornati i Carabinieri e fatte scattare le manette ai polsi lo hanno sbattuto al fresco. A muovere i gendarmi, un ordine del Tribunale, che si doleva non del fatto che un carcerato casalingo continuasse a dialogare con chiunque, nonostante la sua condizione. Nient’affatto: a far spalancare le porte della cella un messaggio scritto dal giovane su facebook. Non parole, e neppure immagini cruente. Solo una faccina. Un emoticon raffigurante un volto ingrugnato e rabbioso. L’emblema di una minaccia, per i giudici. E per il giovane internauta domestico non c’è stato nulla da fare. Il Riesame ha confermato l’ordinanza del Gip e da ultimo, lo scorso novembre, con sentenza depositata un paio di giorni fa, la Corte di Cassazione ha calato il jolly e chiuso la partita: arresto legittimo e detenzione carceraria sacrosanta perché quell’emoticon indicava una minaccia reale e concreta. «Il messaggio diffuso sul social network – argomentano gli ermellini – è oggettivamente criptico per i più ed indirizzato a chi può comprendere perché sottintende qualcosa di riservato e conosciuto da una ristretta cerchia di persone ed è chiaramente intimidatorio». A renderlo tale, «sia pure a dispetto del tono volutamente suggestivo, le coloratissime emoticon, ancor più chiaramente intimidatorie».

Insomma, adesso si rischia la galera per uno smile postato magari erroneamente sulla bacheca di qualcuno in lutto (chiaro delitto contro la pietà dei defunti), per un pollice verso inviato ad un politico (offesa ad un corpo istituzionale), per un cuore o un bacio recapitati ad un numero sbagliato (chiarissimo esempio di stalking). Esagerazioni, certo. Che però non cancellano, nonostante la loro carica provocatoria, il senso concreto della vicenda: dopo Dio ed il collasso del buon senso, è morta anche la ragione. Con buona pace di quell’utopista di Baruch Spinoza.