È ufficiale: Travaglio porta sfiga.
Per carità, non stiamo dicendo che è uno iettatore; con quel suo aspetto da angelo vendicatore ne è esteticamente lontano. Non ha occhialini tondi e neri, non veste quasi mai di scuro, non porta lugubri cappelli; però porta sfiga uguale.
Se avete velleità politiche o state per decidere una vostra discesa in campo nell’agone elettorale, pregate che Travaglio non posi su di voi la sua benedizione giornalistica; se lo fa, siete spacciati. Non basterà candidarvi alle elezioni comunali in Uganda; la vostra carriera politica è segnata.
Chi ha deciso di cimentarsi con l’arte di Aristotele, confidando nell’appoggio del grande moralizzatore, si è schiantato contro un muro di fallimenti e figure meschine. Travaglio è peggio della maledizione di Tutankhamon.
Da Antonio Di Pietro a Ingroia, passando per l’ultimo capolavoro eroico di Giggino “o’ sindaco”, la sfiga di Travaglio non ha fatto prigionieri.
A onor del vero, bisogna riconoscere che lui non dispensa i suoi favoritismi politici a chicchessia; per riceverli occorre avere delle caratteristiche particolari, delle peculiarità che attirino l’attenzione del vate del giornalismo dalla schiena dritta. Due in modo particolare: essere stati magistrati manettari e giustizialisti, meglio se con qualche morto sulla coscienza e molte vite distrutte; e poi parlare una lingua italiana pre-unitaria, requisito fondamentale per sembrare “gente del popolo”, espressione di quella ridicola “società civile” con cui Travaglio e la sua gang di intellettualoni hanno riempito di scemenze le analisi politico-sociologiche degli ultimi anni. Non è un caso che Di Pietro, Ingroia e De Magistris vengano dallo stesso ufficio di collocamento e insieme non facciano mezza sintassi d’italiano.
Il primo dei tre che ebbe l’iniziazione di “Coso” (come lo chiamò Berlusconi in una memorabile puntata da Santoro), fu Antonio Di Pietro, l’eroe di Mani Pulite, il campione del “tintinnar di manette”; uno che sta allo Stato di Diritto come Pol Pot sta ad Amnesty International. Una personcina così dabbene da dire che il suicidio di Raul Gardini (a causa delle indagini di cui era titolare) fu per lui un “coitus interruptus”. Di Pietro è quello che ha avuto più successo in politica: è stato ministro e ha fondato un partito che per anni è stato un ago della bilancia negli equilibri della sinistra. Emblema del giustizialismo e della lotta per la moralità pubblica, la sua carriera si è infranta negli scandali del suo partito e in una misera ritirata strategica per scomparsa di voti.
Anche dell’altro Antonio (Ingroia), Travaglio è stato amico e mentore. Anzi, con lui ha avuto una liaison politico-intellettuale fortissima. Memorabile è la foto che li ritrae “accoccolati ad ascoltare il mare” sotto lo stesso ombrellone, neanche fossero in una canzone di Baglioni. Il giornalista d’inchiesta e il magistrato duro e puro, in vacanza insieme, spiegano bene che pattumiera d’ipocrisia è il circo mediatico-giudiziario italiano. Ingroia, dopo aver calcato da magistrato i palchi sindacali e le piazze osannanti di paleantropi del popolo viola e dopo essere stato protagonista della famosa inchiesta sulla presunta trattativa Stato-Mafia, ha fondato il suo partito con l’ufficiale benedizione di Travaglio; di Ingroia non c’è più traccia e del suo partito non c’è mai stata.
La parabola imbarazzante di Giggino De Magistris è roba recente. Con la sua vittoria a Napoli, (insieme a quella di Pisapia a Milano) portò Travaglio e i suoi scudieri (l’allegra brigata di giustizialisti, da Flores D’Arcais a Furio Colombo) a costruire il mito del “risveglio civile” dell’Italia dopo il sonno berlusconiano. Poco importava che, mandato al Parlamento Europeo con l’Italia dei Valori, il magistrato anti-casta risultasse uno dei più assenteisti del continente. La sua “rivoluzione arancione” era solo l’inizio; infatti è già finita. Oggi Giggino, per i suoi amici giustizialisti, è un sindaco abusivo: condannato in primo grado ha l’ardire di rimanere in carica inveendo contro il mondo che gli vuole male. I suoi colleghi dell’Anm lo hanno definito “un caso umano” che vuol dire in linguaggio politico-giudiziario: “Amen”.
Di fronte a questi risultati ci viene un dubbio: siccome la sfiga non esiste, può essere semplicemente che Travaglio non capisca nulla di politica, nonostante si danni a dimostrare il contrario.
Sono tempi difficili per tutti, anche per gli angeli vendicatori; e nella crisi delle identità è facile scivolare da un confine all’altro come i transgender e annullare la sottile differenza che passa tra un portasfiga e uno sfigato.

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