I complottisti sono di due tipi: i “patologici” e gli “ignari”.
I primi sono quelli che pensano che l’intera storia del mondo sia spiegabile sotto forma di congiure, grandi vecchi manovratori, trame oscure di cui solo loro sono a conoscenza.
Quello di cui soffrono è una malattia vera e propria, una sorta di disturbo ombroso che si portano dentro e scaricano sul divenire della storia. Per certi versi sono dei semplificatori di realtà: niente processi complessi, niente eterogenesi dei fini. Da Filippo il Bello ai Rosacroce, dai Protocolli dei Savi di Sion, all’11 Settembre, per loro è tutto un profluvio di congiure esoteriche, massoniche, comuniste o demo-pluto-giudaiche.
Il complottismo “patologico” è, in taluni periodi della storia, una vera e propria epidemia alimentata da alcuni untori: i complottisti professionisti, quelli che sfornano teorie del complotto in quantità industriale con libri, documentari, interviste e siti internet. Il problema è che il complottista patologico è perfettamente funzionale al sistema di potere dominante; è una sorta di “utile idiota” di cui il potere (economico, politico, mediatico) si serve per ridicolizzare qualsiasi analisi non conforme a ciò che è imposto. Bollare qualcuno come complottista significa relegare quel che dice in una sorte di sgabuzzino della realtà.
Per questo, all’opposto dei “patologici”, ci sono i “complottisti ignari”, quelli che non sono complottisti ma sono accusati di esserlo proprio perché quello che dicono mette in discussione il dogma vigente; sono complottisti solo perché, come Jessica Rabbit, li disegnano così.

Per esempio, nel 2011 gli analisti del Daily Bell, una piccola ma agguerrita testata on line della destra libertaria americana (dove, per intenderci, scrivono politici come Ron Paul e filosofi come Tibor Machan), furono accusati di complottismo perché, all’indomani della Primavera Araba, pubblicarono una serie di articoli in cui sospettavano che quel grande fenomeno salutato dai media occidentali come l’alba della democrazia islamica, non fosse poi così spontaneo come il mondo ci raccontava; e soprattutto iniziarono a domandarsi per quale ragione l’Occidente stava contribuendo ad abbattere tutti i regimi laici del nord Africa (molti dei quali erano suoi alleati) che rappresentavano comunque, nonostante la corruzione e l’autoritarismo, un argine al dilagare dell’estremismo islamico.
Dalla Tunisia, all’Egitto, passando per Libia, il Sudan e la deriva irachena, quelli del Daily Bell anticiparono persino lo scoppio della guerra civile in Siria come ultimo atto di una destabilizzazione voluta dell’intera area.
La loro conclusione fu che alcuni centri di potere occidentali stessero favorendo l’insorgere dell’integralismo sunnita in un’ampia regione del mondo che va dal nord Africa al Medio Oriente; la stessa mezzaluna che oggi è attraversata dall’ondata islamista che ha raggiunto i confini della Turchia.
Il motivo? Opporre agli Usa e all’Europa un nemico implacabile e temibile che impegnasse le democrazie in una guerra per la propria sopravvivenza e giustificasse svolte autoritarie in Occidente (sotto forma di legislazioni di controllo o limitazioni delle libertà individuali), in funzione di un nuovo ordine globale che si stava per costruire.
Quanto bastava per tacciare il Daily Bell di complottismo e relegare le sue analisi nell’ambito del delirio.
Eppure noi oggi sappiamo che l’Isis è una sorta di Frankenstein uscito dal laboratorio (e dal controllo) di alcune agenzie di intelligence occidentali e finanziato dai petroldollari delle monarchie del Golfo Persico (Arabia Saudita, Qatar e Kuwait) alleate storiche degli Usa  (e dei suoi centri finanziari) e da sempre fiancheggiatrici dei movimenti jihadisti in tutto il mondo.
Insomma, la sensazione è che stavolta, quelli che chiamano “complottisti”, avevano ragione.

Immagine: Erwin Blumenfeld, Cecil Beaton, 1946

su Twitter: @GiampaoloRossi

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