La lenta decadenza
Voglio cominciare con un’affermazione forte, anche se sono consapevole che non tutti la condivideranno: la mia generazione, che ha vissuto la guerra da bambino ed è poi stata la protagonista della ricostruzione, è stata la più fortunata nella storia d’Italia (e se si guarda oltre frontiera, forse anche della storia dell’Occidente). Abbiamo vissuto, con brevi interruzioni, 50 anni di continuo progresso, in cui il Paese rinasceva intorno a noi con tanti difetti ma anche moltissimi pregi. Non abbiamo mai avuto seri problemi per trovare lavoro, e neppure per cambiarlo a nostro piacimento, perché nascevano sempre nuovi posti che aspettavano di essere occupati e nuove iniziative che andavano seguite. C’era soprattutto, in tutti i ceti, anche nei meno fortunati, una atmosfera di ottimismo sul futuro, di consapevolezza che salvo inaspettati cataclismi il nostro domani sarebbe stato – o almeno poteva essere – migliore dell’oggi, e che alla fine della vita lavorativa avremmo goduto di una pensione decente. Abbiamo sofferto, sì, delle continue svalutazioni della lira (che ora tutti i nemici dell’Euro rimpiangono, ma che rendevano più care le importazioni e i viaggi all’estero); abbiamo dovuto sorbirci governi spesso incapaci, che per giunta cambiavano ogni pochi mesi, ma nello stesso tempo abbiamo goduto di una stabilità politica di fondo che allora non ci piaceva troppo e tuttavia ha giovato alla cresciuta del Paese; avevamo gli stessi problemi di oggi con la burocrazia, i sindacati e quant’altro, ma forse erano meno incancreniti di adesso; abbiamo avuto il terrorismo nero e rosso e i conseguenti anni di piombo, che sono stati sanguinosi e angosciosi (e ve lo dice uno che, essendo nel mirino delle BR, ha vissuto per cinque anni sotto scorta) ma da cui siamo usciti a testa alta; abbiamo avuto Tangentopoli, con la sua scia di vergogne, di suicidi e di pesanti conseguenze politiche, ma è stata anche una specie di catarsi di cui il Paese aveva bisogno; abbiamo vissuto all’ombra della guerra fredda, ma l’equilibrio del terrore impediva che i vari conflitti locali e perfino le invasioni sovietiche dell’Ungheria e della Cecoslovacchia degenerassero nella terza guerra mondiale. La nostra grande fortuna, tuttavia, è stata un’altra: Mao, Stalin, Brezhnev e i loro compari hanno impedito per quasi mezzo secolo a un terzo dell’umanità di competere sui mercati, lasciando noi europei – insieme con l’America e poi con il Giappone – padroni del campo anche se avevamo appena perduto le colonie. Questa situazione di privilegio ci ha permesso di concederci lussi – o se preferite il linguaggio della sinistra, conquiste – una volta inimmaginabili e che oggi, negli anni della globalizzazione e della perdita di competività, sono diventati un handicap. Inoltre, nei 50 anni della nostra vota attiva, ci sono stati tali progressi tecnici da cambiare radicalmente la qualità della nostra vita. Basti pensare a quello che è successo nella mia professione: ho cominciato trasmettendo il mio primo servizio con un telefono a manovella, sono passato attraverso la teleselezione, il telex, il fax e sono approdato a Internet, che mi consente di inviare istantaneamente testi e fotografie schiacciando un bottone. In un certo senso, abbiamo cambiato il mondo, e ne abbiamo tratti i benefici. Abbiamo impresso una impressionante accelerazione alla storia, perché le differenze tra la metà del secolo e la sua fine sono state superiori a quelle tra il mondo di Alessandro magno e quello di Napoleone.
La fortuna della nostra generazione è stata solo in parte ereditata dai nostri figli – per intenderci quelli che si sono affacciati al mondo del lavoro negli anni Ottanta – e per nulla dai nostri nipoti,i quali soffrono oggi non solo del peggior tasso di disoccupazione della storia, ma portano anche il peso degli errori compiuti dai loro nonni e padri, che oggi pesano come macigni sulla situazione italiana: su tutti gli altri, l’accumulazione di un debito eccessivo, con cui ci siamo (colpevolmente) finanziati l’epoca d’oro dell’ultimo scorcio del Novecento. Hanno avuto le sfortuna supplementare di incappare nella più lunga recessione nella storia della Repubblica, importata dall’estero ma moltiplicata da istituzioni che non hanno tenuto il passo con i tempi. Anche quando non sono costretti a farsi mantenere, in tutto o in parte, dai nonni e dai padri che hanno avuto la fortuna di potere accumulare qualche risparmio, vivono in una atmosfera impregnata di pessimismo e priva delle aspettative che, per noi, rappresentavano lo stimolo. L’impressione, anche degli stranieri che ci conoscono meglio, è che l’Italia abbia perso la sua spinta propulsiva, come dimostra anche la riluttanza dei giovani a accettare certi mestieri e la necessità di ricorrere a tanta manodopera importata quando abbiamo il 12 per cento abbondante di disoccupazione. Questo Paese stanco si trova a competere in un mondo che, con l’affrancamento dal comunismo (economico) di tanti Paesi, dalla Cina all’Europa dell’Est, e l’emergere di nazioni che ancora trent’anni fa erano “Terzo mondo” è diventato sempre più competitivo, sempre più deciso a occupare gli spazi che una volta erano nostri.
Il grande interrogativo è se questa ultima generazione riuscirà a portare fuori l’Italia dalla palude, e ripetere quella opera di ricostruzione che è stata il nostro vanto ( ricordate quando la lira prese ,l’Oscar delle monete?). Il problema è che oggi non si tratta di ricostruire case e fabbriche, di dotare tutti di automobili, televisioni ed elettrodomestici, ma di cambiare le istituzioni; e il compito è, a mio avviso, più difficile, perché incontra più resistenze palesi ed occulpte. Spero con tutte le mie forze che ce la faccia, ma non vedo rosa nel futuro. Vedo, piuttosto, una strisciante ma progressiva decadenza, in parte autoinflitta da una classe dirigente che non è all’altezza di quelle che ci portarono alla vetta. Sono, francamente, preoccupato per i miei nipoti, e non mi stupisco di quanti abbiano deciso di emigrare verso altri lidi. Ma, soprattutto, mi auguro di sbagliarmi.