Quanti immigranti  dall’Africa – rifugiati politici e profughi economici – possono essere accolti in Europa senza snaturare la nostra civiltà e il nostro modo di vivere? Se dessimo retta a Papa Francesco, o anche soltanto alla Boldrini e ai suoi troppi seguaci- dovremmo addirittura aprire le porte e accogliere tutti quelli che “inseguono una vita migliore”, lontano non solo dalle guerre ma anche dalla miseria. Ma costoro si rendono conto di quanta gente arriverebbe da noi se si applicassero le loro ricette? L’Africa è ormai l’unico continente in cui la popolazione continua ad aumentare in maniera esponenziale, con proiezioni che variano ma che fanno tutte rizzare i capelli in testa. Dal momento che le risorse del continente, anche se fossero sfruttate meglio, non saccheggiate dai cinesi e da una classe politica a fronte della quale la nostra è un’assemblea di angioletti, sono limitate, se si seguisse la ricetta dei “buonisti” a riversarsi da noi sarebbero non solo i 500.000 ammassati nei campi della Libia, ma altri milioni e milioni, sempre meno preparati, sempre più provenienti da società diverse dalla nostra, sempre meno assimilabili.

In altre partole, nel giro di due o tre generazioni al massimo, complice anche la nostra inarrestabile crisi demografica, assisteremmo a una “africanizzazione” dell’Europa cui non resisterebbe neppure la corazzata tedesca.Un simile ricambio di popolazione – nel bene e nel male -non sarebbe una novità nella storia dell’umanità; dalla fine dell’impero romano d’Occidente alla “spagnolizzazione” dell’America latina, gli esempi non mancano. Il guaio è che, nel nostro caso, sarebbe un passo indietro: quella che è stata la culla della civiltà mondiale sarebbe gradualmente sommersa da un’ondata di immigranti che, senza voler essere razzisti, sono indietro di alcuni secoli rispetto a noi; e il fatto che molti di loro sarebbero mussulmani non aiuta di certo.

Non voglio passare per razzista, ma ho sempre creduto, con il famoso e molto criticato scienziato americano Janssens, che europei, cinesi, neri, indios delle Ande e quant’altri non fossero eguali. Non so spiegarmi scientificamente il perché, è un compito che lascio agli specialisti del DNA, ma giudico dai risultati. Intendiamoci bene: la “classifica di civiltà”, se vogliamo chiamarla così, dipende da quale è la pietra di paragone. Se questa fosse chi corre più veloce, o gioca meglio a basket, o ha una maggiore resistenza in condizioni di difficoltà, i neri vincerebbero a mani basse. Ma poiché, in questo momento, la pietra di paragone è la capacità di inserimento in una civiltà industriale moderna, essi finiscono ultimi in classifica. Per dimostrarlo, farò soltanto due esempi.

Haiti, quand’era una colonia francese, era considerata la Perla delle Antille e tale era ancora quando, primo Paese dell’America centrale e meridionale,  conquistò l’indipendenza nel 1805. Era abitata quasi esclusivamente da neri, discendenti degli schiavi importati dall’Africa, e dai neri (oltre che dai mulatti) è stata governata e amministrata da allora. Risultato: oggi è il Paese più povero del continente, il recente terremoto ha solo aggravato le cose.

Secondo esempio, lo status della comunità afro-americana negli Stati Uniti. E’ vero che gli afro-americani di oggi sono a loro volta discendenti degli schiavi, ma dal loro affrancamento è passato ormai un secolo e mezzo, la segregazione che vigeva ancora negli Stati del Sud è stata abolita da Kennedy e Johnson e sono state anche promulgate molte leggi per favorirli, nell’accesso alle università e in vari altri settori. Eppure, essi sono rimasti sempre in coda a tutte le classifiche nazionali, economiche, culturali, di obbedienza alla legge, e sono stati superati in tromba da tutti gli altri gruppi etnici arrivati in America dopo di loro, ultimi gli ispanici. Incidentalmente, anche i bianchi  WASP, antichi padroni, stanno per essere soppiantanti in testa ad alcune di queste queste graduatorie dagli asiatici…..

E allora? Allora hanno ragione coloro che sostengono che possiamo, sì, accogliere un certo numero di persone, cercando di assimilarle gradualmente e non ridurle a perenni vu’cumpra, ma dosando le quote con molta attenzione. Chiuderci una fortezza sarebbe materialmente impossibile, e forse non ci converrebbe neppure visto che non facciamo più figli e che, nonostante l’avvento di una industria sempre più robotizzata e meno bisognosa di manodopera, un certo numero di lavoratori manuali è indispensabile. Ma, neppure per carità cristiana, dobbiamo permettere che ci travolgano.

 

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