La fine di un matrimonio lascia quasi sempre un senso di grande sconfitta interiore e personale. Ci si può sentire falliti e incapaci di aver saputo affrontare le difficoltà. In base alle nuove leggi cosa fare una volta presa la decisione di separarsi? Cosa fare prima di chiedere la separazione? Cosa non fare durante la separazione? Abbiamo chiesto questi ed altri quesiti all’Avvocato Massimo Giordano,  dello Studio Legale Giordano & Associati di Lecco.

Con la sentenza n. 32198, pubblicata in data 5 novembre 2021, le Sezioni Unite della Corte si sono espresse intervenendo sulla sorte e definizione dell’assegno di divorzio in favore del coniuge economicamente più debole. Quindi cosa cambia rispetto al passato?

La citata sentenza n. 32198/2021 riesamina la questione legata all’insorgere, dopo il divorzio, di una convivenza dell’ex coniuge e di come questo nuovo stabile rapporto possa incidere sulla debenza o meno dell’assegno divorzile. Partiamo dalla premessa che l’assegno divorzile ha una doppia natura in quanto ha una componente assistenziale e un componente compensativo-perequativa. In passato, mi riferisco alla sentenza della Cassazione n. 6855/2015, l’instaurarsi di una nuova convivenza dotata dei connotati di stabilità e continuità, annullava completamente ogni connessione con il modello di vita caratterizzante la pregressa fase matrimoniale e con ciò ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile. Con la pronuncia delle SS.UU. in caso di nuova e stabile convivenza, la caducazione dell’intero assegno divorzile non è più automatica in quanto la componente compensativo-perequativa, laddove riconosciuta, potrebbe comunque venire salvaguardata. Dunque se il coniuge più debole ha sacrificato la propria professione o carriera a favore delle esigenze familiari, a differenza del passato oggi è considerato ingiusto che perda qualsiasi diritto ad una compensazione dei sacrifici fatti in costanza di matrimonio solo perché si è ricostruito una vita affettiva. In caso di nuova convivenza l’assegno divorzile potrà dunque essere rimodulato a fronte della prova del contributo dato dal coniuge debole con le sue scelte personali; contributo che non verrebbe riconosciuto se si aderisse al principio della caducazione integrale. Naturalmente il Giudice dovrà tenere conto, ai fini della determinazione dell’ammontare dell’assegno, della durata del rapporto matrimoniale per poter valutare il contributo di ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell’altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità professionali e reddituali valutabili alla conclusione della relazione matrimoniale, anche alla luce dell’età del richiedente e della conformazione del mercato del lavoro. I mariti possono comunque stare ancora relativamente tranquilli: il Giudice nel valutare la richiesta di assegno divorzile, sarà infatti tenuto a considerare tutte le eventuali attribuzioni o gli introiti che abbiano compensato il sacrificio delle aspettative professionali del richiedente e quindi già realizzato l’esigenza perequativa che la recente sentenza mira a salvaguardare.

 

Nella maggior parte dei casi una separazione impoverisce entrambe le parti coinvolte; com’è possibile separarsi tutelando allo stesso tempo il proprio patrimonio?

È un dato di fatto che il procedimento di separazione impoverisca le parti coinvolte. Con la divisione del nucleo familiare le spese raddoppiano. I provvedimenti presi dal Giudice nell’interesse della prole che impattano a livello economico sui genitori sono l’assegnazione della casa coniugale, cui di solito fa da contraltare la necessità di reperire altra soluzione abitativa con relativo canone di locazione, e gli obblighi di mantenimento. Se questi provvedimenti venissero presi senza una effettiva ed approfondita analisi del caso specifico il rischio che almeno uno dei due coniugi, generalmente il padre, subisca un drastico e repentino peggioramento della sua situazione economica è assai elevato. Il primo accorgimento per tentare di tutelare il patrimonio personale è quello di scegliere il regime patrimoniale della separazione dei beni in modo tale da non dover rimettere sul tavolo tutto ciò che appartenga alla famiglia. In talune occasioni capita che i coniugi, per ragioni di mera opportunità, decidano per esempio di intestare un immobile solo alla moglie nonostante l’acquisto si sia perfezionato con i soldi del marito. Queste situazioni, in sede di separazione/divorzio, diventano poi particolarmente pregiudizievoli per il marito che potrebbe trovarsi, oltre che senza proprietà, con il mutuo residuo e un affitto da pagare.

 

Quindi cosa fare?

Per evitare l’insorgere di tali problematiche si può ipotizzare di destinare l’immobile ai figli anche se questo tipo di valutazione viene normalmente presa in considerazione quando i genitori sono già in fase di separazione. Ulteriore strumento per la salvaguardia dell’autonomia negoziale privata nella famiglia è l’istituto del TRUST. Si tratta di negozio giuridico per il quale un soggetto (entrambi i coniugi o uno solo), trasferisce uno o più beni ad un altro soggetto (soggetto vicino alla famiglia ovvero uno dei coniugi), affinché li utilizzi a vantaggio di un terzo beneficiario (i figli oppure il coniuge o ex coniuge in relazione agli obblighi ex art.156 c.c.) o per il perseguimento di uno scopo. Nel trust possono confluire beni di ogni sorta: denaro, mobili semplici, mobili registrati, immobili, diritti reali immobiliari, royalties di brevetti, canoni di locazione. Il trust può essere anche un mezzo per pianificare il passaggio intergenerazionale della ricchezza, come quando si vuole disciplinare il subentro nell’azienda familiare. L’istituto può regolare anche i rapporti economici tra conviventi, a cui è peraltro precluso l’utilizzo del fondo patrimoniale, riservato per legge alle coppie sposate. Questa tipologia di negozio giuridico, nei procedimenti di separazione e divorzio, può dunque servire per sistemare i beni comuni, risolvendo le controversie insorte per l’intestazione e l’utilizzo di questi, al fine di garantire il mantenimento dei figli fino al raggiungimento della loro indipendenza economica.  Col trust è possibile infatti isolare le risorse del coniuge obbligato agli alimenti o al mantenimento in modo che non possano essere distolte dall’adempimento di queste obbligazioni. Il coniuge obbligato, attraverso la costituzione di un trust, può cercare di contenere le richieste economiche dell’altro. La segregazione evita inoltre che il patrimonio vincolato possa essere aggredito dai creditori. L’istituzione di un trust può essere prevista quale condizione nel ricorso per la separazione consensuale, e successivamente omologata, o nel ricorso congiunto di divorzio e confermato nella successiva sentenza del tribunale. Tutto ciò trova riconoscimento nell’autonomia negoziale dei coniugi quale mezzo di risoluzione delle controversie economiche nelle crisi matrimoniali.

 

Ai tempi del matrimonio, quando tutto andava bene, spesso si è deciso per la comunione dei beni: come possiamo avere una tutela anche con questa decisione?

La riforma del diritto di famiglia L 151/75 ha introdotto, in mancanza di diversa convenzione tra i coniugi, il regime patrimoniale della comunione dei beni al fine di attribuire ad entrambi i coniugi uguali poteri di cogestione e uguali diritti sugli acquisti. La comunione trovava (l’imperfetto è d’obbligo) fondamento nell’esigenza, fatta propria dall’Ordinamento, di dare attuazione in maniera più profonda alla causa del matrimonio, realizzando una comunione di vita tra gli sposi, anche per quanto riguarda il profilo patrimoniale, per consentire loro l’uguale partecipazione alle ricchezze prodotte in costanza di matrimonio. Dette ricchezze in effetti sono, solitamente, frutto dei sacrifici e dell’impegno di entrambe le parti. Con la comunione legale i beni acquistati dai coniugi, insieme o individualmente, entrano a far parte di un unico patrimonio comune ad entrambi. Non tutti i beni però cadono in comunione. L’art. 179 c.c. esclude:

  1. i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
  2. i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione;
  3. i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge e i loro accessori;
  4. i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione;
  5. i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
  6. i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali di cui sopra o con il loro scambio, se la circostanza è espressamente dichiarata all’atto dell’acquisto.

È dunque importante avere chiaro quali siano i beni che entrano o meno a far parte della comunione per poter effettuare sin dall’inizio la più corretta scelta di regime patrimoniale. Ugualmente importante è tenere conto, ad esempio in relazione all’attività lavorativa svolta dai coniugi, della probabilità di contrarre debiti. Secondo l’articolo 186 c.c. i beni della comunione sono destinati a soddisfare anche le obbligazioni contratte dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia e per qualsiasi ragione o finalità. Ne consegue che i creditori di uno dei coniugi che non trovino capienza nel suo patrimonio individuale potranno soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, oppure potranno agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura della metà del credito, qualora i beni della comunione non siano sufficienti a soddisfare i debiti su di essa gravanti. Ovviamente questa possibilità è scongiurata con l’adozione del regime di separazione perché in questo caso delle obbligazioni personali di uno dei coniugi risponde solo il patrimonio personale di costui, mentre quello dell’altro non viene coinvolto in nessun modo. Pertanto, nei confronti dei terzi creditori il regime di separazione dei beni rappresenta una prima forma elementare di protezione del patrimonio familiare. Altra forma di protezione è la costituzione del fondo patrimoniale. Se uno dei due coniugi ha debiti o conduce un’attività economica che potrebbe implicare un forte rischio di insolvenza o fallimento, l’altro farà bene a tutelarsi in anticipo eventualmente, costituendo un fondo patrimoniale su tutti i beni in comune. Tutto ciò che infatti viene immesso nel fondo patrimoniale (immobili, auto e moto, titoli di credito) non può essere pignorato per debiti estranei ai bisogni familiari. Per tranquillizzare coloro che temono di aver fatto una scelta sbagliata ricordo che è comunque possibile in qualsiasi momento modificare attraverso un atto notarile il regime patrimoniale adottato all’inizio della vita coniugale. Stipulato l’atto di modifica il Notaio provvederà quindi a far annotare la nuova scelta dei coniugi sull’atto di matrimonio dimodoché essa sia opponibile a tutti, anche ai creditori. Se ne ricorrono i presupposti deve essere anche annotata a margine della trascrizione effettuata nei registri immobiliari e dei beni mobili registrati. Si tratta di una modifica che non ha valore retroattivo e che non “sana” le situazioni passate.

 

Le prime vittime dei divorzi sono appunto i figli, ma, in subordine, sono gli uomini. Peraltro, pare statisticamente, siano quasi sempre le donne ad avviare la richiesta di separazione. Può chiarirci il suo pensiero in merito?

I dati statistici confermano che nella prevalenza dei casi sia la donna ad introdurre il procedimento di separazione forse perché è la prima a rendersi conto dell’impossibilità di mantenere e/o recuperare il rapporto coniugale. Oltre alle motivazioni di natura psicologica ritengo però che abbiano un peso importante anche le motivazioni di natura economica. Raramente un uomo decide di attivarsi per primo sapendo che dovrà cercare una nuova abitazione e contribuire “da lontano” al mantenimento dei figli e magari anche della moglie. Gli uomini hanno ormai ben chiaro ciò che comporta dal punto di vista economico una separazione e credo sia questa consapevolezza a determinare nella maggior parte dei casi la loro posizione di “resistente” nell’ambito del giudizio.

Nella foto: Avv. Massimo Giordano dello Studio Legale Giordano & Associati di Lecco

 

Se un marito, tra l’altro, è economicamente la parte debole, è possibile ridimensionare l’assegno di mantenimento a prescindere dalle richieste della moglie?

Non basta più la semplice disparità economica tra ex coniugi per riconoscere, a quello dei due più debole, il diritto all’assegno di mantenimento. Il Giudice infatti deve valutare anche le eventuali capacità lavorative di quest’ultimo e quindi la possibilità di potersi mantenere da solo, a prescindere dalla disponibilità di un posto di lavoro. Questo, in sintesi, è il pensiero della Cassazione degli ultimi anni.  All’atto della separazione il Giudice decide se accordare il mantenimento al coniuge che non ha la capacità di mantenersi da solo, di condurre cioè un decoroso stile di vita in relazione all’ambiente sociale in cui è inserito. La misura di tale mantenimento è rivolta a garantire solo l’autosufficienza e non a colmare il divario economico tra i due ex coniugi. Pertanto, una volta assicurato il sostentamento a quello meno abbiente, non rileva più che l’altro sia molto più ricco e possa avere un tenore di vita più elevato.  Allo stesso modo, è da escludere il mantenimento se il coniuge “più povero” ha già comunque un proprio reddito che gli consenta di mantenersi da solo, a prescindere dalle capacità economiche dell’ex. Secondo gli ultimi orientamenti, se la moglie è giovane o con pregresse esperienze lavorative e quindi formata o comunque con un titolo professionale spendibile sul mercato del lavoro, il Giudice respingerà la sua richiesta di assegno. Naturalmente il discorso è diverso se ad uno dei due coniugi è stata attribuita la separazione con addebito. Non ha infatti diritto al mantenimento la moglie che subisce l’addebito per aver tradito il marito, per essersene andata via di casa senza una valida ragione o per non aver prestato l’assistenza morale e materiale al coniuge. In base alla mia esperienza non è più inusuale che la moglie sia la parte economicamente più forte del rapporto; in questo caso il marito non è obbligato a contribuire al suo mantenimento, rimane invece tenuto a provvedere, in proporzione alle sue sostanze, al mantenimento della prole.

 

In questo caso il giudice potrebbe, in via eccezionale, lasciare la casa al marito anche se è di proprietà della moglie?

Il principio che regola l’assegnazione della casa coniugale è finalizzato esclusivamente alla tutela della prole. Il godimento della casa familiare a seguito della separazione dei genitori, (anche se non uniti in matrimonio), ai sensi dell’art. 337 sexies c.c. è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli, occorrendo soddisfare l’esigenza di assicurare loro la conservazione dell’habitat domestico, da intendersi come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare. Ne consegue che, indipendentemente dalla proprietà ed indipendentemente dalla situazione economica, la casa familiare viene assegnata al genitore collocatario dei figli. Le più recenti sentenze (Cass. n. 18603/21, n. 3221/2018) confermano che i problemi, le liti e i comportamenti dei genitori non possono incidere “a detrimento dei minori” cosicché l’assegnazione della casa familiare deve seguire esclusivamente il criterio del perseguimento del miglior interesse per il figlio. L’assegnazione della casa coniugale non rappresenta una componente delle obbligazioni patrimoniali conseguenti alla separazione o al divorzio o un modo per realizzare il mantenimento del coniuge più debole ma è espressamente condizionata soltanto all’interesse dei figli, essendo scomparso il criterio preferenziale costituito dall’affidamento della prole, a fronte del superamento, in linea di principio, dell’affidamento monogenitoriale in favore della scelta, di regola, dell’affido condiviso. Ne consegue che, in assenza di figli, il Giudice non potrà disporre l’assegnazione della casa familiare, quand’anche uno degli ex coniugi sia privo di una abitazione e l’altro ne disponga più di una. Il Giudice dovrà però tenere conto di questo squilibrio economico tra gli ex coniugi in sede di definizione dell’assegno di divorzio, sempre che naturalmente il coniuge privo di casa di proprietà sia anche non indipendente economicamente, nel qual caso, qualora sia in grado di provvedere al pagamento dell’affitto di una abitazione dignitosa e sufficiente per i suoi bisogni e non abbia contribuito ad accrescere con il suo impegno e il suo lavoro il patrimonio della famiglia o dell’altro coniuge, non sarà neppure destinatario di un assegno a suo favore.

 

Vi sono addirittura casi di mariti che sono costretti a vivere in macchina, in quanto gli hanno portato via tutto e anche pignorato la partita IVA con la quale lavoravano. Esiste una via di fuga legalmente parlando? 

Il Tribunale stabilisce il contributo al mantenimento della moglie e dei figli sulla base, oltre che delle richieste delle parti, dell’analisi delle dichiarazioni dei redditi di entrambi i coniugi proprio per assumere una decisione quanto più oggettiva e sostenibile possibile e quindi evitare di mettere in ginocchio una parte (che solitamente coincide con il marito/padre). Talvolta però accade che, specie con il passare degli anni e con l’insorgere di situazioni nuove (ad esempio una diminuzione della capacità reddituale o la perdita del posto di lavoro) per il padre diventi impossibile continuare a versare l’assegno di mantenimento originariamente previsto. Per evitare l’insorgere di procedure esecutive, i cui risvolti spesso sono drammatici, è necessario ricordare che si può nuovamente adire il Tribunale per richiedere una modifica dei provvedimenti di separazione o divorzio. Naturalmente perché questo ricorso possa essere accolto e quindi portare ad una rivisitazione dell’assegno è necessario dimostrare l’intervenuto cambiamento in peius della situazione precedente.

 

Succede anche che il marito, talvolta, per essere in qualche modo penalizzato, viene additato dalla moglie come fedifrago o viceversa. Ma se non vi sono le prove, queste accuse hanno un peso legale?

Il tradimento è ancora una delle più frequenti cause di separazione tra i coniugi. Il dato ovviamente non sorprende: la fedeltà è uno dei principali obblighi nascenti dal matrimonio e, pertanto, la sua violazione costituisce una grave mancanza nei confronti del coniuge. In alcuni casi, l’infedeltà può costare non solo la fine del rapporto ma anche l’addebito della separazione, con le conseguenze economiche importanti di cui abbiamo già parlato. Il tradimento deve però essere provato in Tribunale non potendo il Giudice accertarlo solo sulla base delle dichiarazioni rese dal coniuge tradito. In ogni caso il tradimento, anche laddove dimostrato, non equivale automaticamente a causa di addebito. Il coniuge che ha tradito non subirà l’addebito se riuscirà a dimostrare che il fallimento del matrimonio deriva da ben altre ragioni e che il tradimento è conseguenza di una situazione precedente già compromessa da altre ragioni. Ovviamente sia per avanzare la richiesta di addebito sia per difendersi diventa fondamentale la prova. Non è ammesso utilizzare registrazioni effettuate con cimici, microspie o altri sistemi lasciati accesi in auto o a casa di nascosto ed è ancora piuttosto controversa la possibilità di utilizzare messaggi (sms, chat, email) se carpiti di nascosto e senza autorizzazione. Secondo la gran parte dei giudici, simili prove non possono essere utilizzate perché acquisite violando la legge (cioè la privacy e il diritto di segretezza della corrispondenza). Secondo qualche precedente giurisprudenziale è però possibile presentare al giudice un sms, un whatsapp o un’email a condizione che il dispositivo sul quale sia stata trovata la prova del tradimento fosse lasciato aperto e disponibile per casa, senza alcuna protezione. Anche l’eventuale confessione deve essere provata, (si pensi ad una lettera indirizzata al coniuge). La confessione riportata in modo orale, se non davanti a terzi che possano testimoniare le affermazioni, non può essere prova in quanto non documentabile. La fotografia è invece utilizzabile come prova solo se non espressamente contestata mentre le relazioni investigative non costituiscono prova documentale: l’investigatore privato potrà però essere chiamato a testimoniare sui fatti che sono avvenuti in sua presenza e ai quali ha assistito personalmente.

 

Esiste una legge che punisce il coniuge che mette i figli contro l’altro coniuge inventando le più infamanti accuse?

I figli hanno il diritto a vivere con entrambi i genitori. Anche se questi sono separati o hanno divorziato, è importante riuscire a mantenere solidi legami affettivi con i minori affinché sia il padre sia la madre maturino un rapporto amorevole e un contatto se non quotidiano comunque periodico. Nelle separazioni in cui il livello di conflittualità risulta essere particolarmente elevato accade però, e ancora con una certa frequenza, che uno dei due genitori screditi l’altro agli occhi dei figli o commetta gravi inadempienze rispetto al provvedimento che disciplina i termini di visita. In questi casi laddove si ravvisi l’insorgere della sindrome da alienazione parentale (atteggiamento psicologico del bambino che rifiuta la figura paterna perché aizzato dalla madre o viceversa) la famiglia, su indicazione del Tribunale, potrà intraprendere un percorso di mediazione familiare. Nei casi più gravi, il genitore, quasi sempre il padre, potrà poi fare ricorso al Giudice per chiedere la cessazione della condotta denigratoria e la modifica (se non addirittura la revoca) del provvedimento di affidamento dei figli. Il Giudice, su istanza di parte, potrà infatti modificare i provvedimenti in vigore relativi all’affidamento e potrà disporre a carico del genitore colpevole delle condotte pregiudizievoli, delle sanzioni quali ad esempio:

  • l’ammonizione
  • il risarcimento dei danni a carico di uno dei genitori nei confronti dell’altro genitore e nei confronti del figlio (perché in assenza della figura paterna è privato del diritto ad una sana e serena crescita)
  • la collocazione del figlio presso l’altro genitore
  • la revoca dell’affidamento condiviso

Recentissime sentenze hanno addirittura stabilito che costituisce reato la condotta, ripetuta nel tempo, del genitore che fa di tutto per evitare che l’altro genitore e il figlio si vedano in quanto si viola l’ordine di un giudice, ovvero la disposizione contenuta nel provvedimento di separazione o di divorzio che sancisce questo diritto. Il reato scatta nel momento in cui un genitore impedisce volutamente l’esercizio del diritto di visita dell’altro. In questi casi è possibile sporgere querela nei confronti dell’altro genitore (solitamente la ex moglie) in modo da avviare il procedimento penale. Nel momento in cui il reato verrà accertato, sarà possibile ottenere il risarcimento del danno.

 

In ogni caso prima di chiedere la separazione al coniuge è sempre meglio chiedere delucidazioni ad un buon avvocato. In quanto anche quando inizialmente si è disponibili a una  consensuale, poi subentrano leggi che rimettono tutto in gioco e l’accordo salta. E’ d’accordo?

La scelta di addivenire ad una separazione consensuale o ad un divorzio congiunto, pur comportando una maggior fatica iniziale, è sempre da preferire. Partendo dal presupposto che in questo tipo di procedimenti non si può ragionare in termini di  “causa vinta”  o  “causa persa”  è importante affidarsi a professionisti seri che, pur difendendo gli interessi di parti diverse, collaborino insieme alla ricerca della miglior soluzione per tutti. La parte deve essere subito informata rispetto a ciò che comporta una separazione sia in termini di diritti da salvaguardare sia in termini di obblighi da rispettare. Una valutazione oggettiva e una buona “contrattazione” potranno aiutare le parti a raggiungere più agevolmente l’accordo. Naturalmente nelle situazioni più complesse, in cui prevale l’emotività e quindi la litigiosità bisognerà rimettersi alla decisione ultima del Tribunale.

 

Ravvisa delle responsabilità, per una qualsiasi causa legale, nella sua categoria professionale?

In questo tipo di procedimenti può essere determinante il feeling che si crea tra i professionisti. Se entrambi gli avvocati sono convinti che vi siano le premesse per addivenire ad una separazione consensuale nessuna delle due parti si sentirà schiacciata dall’altra. Non sempre questo accade e credo che per svolgere seriamente e responsabilmente il proprio incarico un avvocato non debba sempre assecondare le richieste del proprio assistito, aiutandolo, laddove necessario, a comprendere i limiti della sua posizione.

 

veronica_grimaldi1@yahoo.it

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