I professionisti dell’antimafia, padroni d’Italia
È passata sotto traccia, appena un flash nei notiziari della notte e qualche riga sui quotidiani locali, l’amara ammissione del procuratore Francesco Lo Voi, capo della Procura di Palermo, una di quelle che con le sue inchieste, nell’ultimo quarto di secolo, ha maggiormente condizionato i destini d’Italia. Cosa ha detto Lo Voi, approfittando del palcoscenico offertogli dall’inaugurazione dell’anno giudiziario? Che «c’è stata forse una certa rincorsa all’attribuzione del carattere di antimafia, all’autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l’antimafia nulla avevano e hanno a che vedere». Avesse proposto anche qualche esempio, il procuratore capo, avrebbe aiutato a smascherare compiutamente il grande imbroglio dell’ultimo quarto di secolo, fatto di una lotta alle mafie che non ha minimamente scalfito le cosche, come l’ottimo stato di salute di Cosa Nostra, ‘ndrangheta e Camorra testimonia. Ma il passo avanti che la sua riflessione fa segnare è comunque innegabile: pure la magistratura (e dirompente è che lo spunto arrivi da quella palermitana, da sempre simbolo per eccellenza dell’antimafia a prescindere) prende atto della finzione in cui un Paese intero è stato tenuto per decenni. Diventando così, con l’appoggio di essenziali complicità in ambito giudiziario, politico e mediatico, patria di processi montati sui giornali e sgonfiati nelle aule di giustizia, oltre che terreno fertile per oltre 2.000 associazioni antimafia oggi ufficialmente attive da Trieste a Canicattì e che insieme a centinaia di altre fondazioni ed enti di promozione sociale rigorosamente antimafia, solo tra il 2007 ed il 2013, in Calabria, Sicilia e Campania hanno drenato risorse per 330 milioni di euro attraverso il Pon Sicurezza, per tacere dei finanziamenti ottenuti per altre vie, in primis il ministero degli interni.
Già ad agosto, a dire il vero, l’omertà delle toghe sul tema era stata infranta da un magistrato (per fortuna sua e nostra) senza amor di casta, Nicola Gratteri, procuratore aggiunto a Reggio Calabria, che in un’intervista aveva fatto saltare il tappo: «Non si può fare dell’antimafia un mestiere. C’è gente furba che si fa vedere vicino a magistrati e vittime di mafia ma che non ha mai prodotto nulla. Persone che ottengono legittimazione tenendo incontri nelle scuole». Parole dure, finalmente chiare. E chiarificatrici. Lasciate però cadere anche da chi, magari proprio nel mondo dell’associazionismo, le mafie le combatte per davvero ed avrebbe (per lo meno, dovrebbe avere) tutto l’interesse a scacciare ombre, non fosse altro che in nome della verità. Invece niente. Solo il rumore sordo del muro di gomma contro il quale era andato a sbattere già un lungimirante Leonardo Sciascia: per fare carriera e soldi, sosteneva lo scrittore siciliano negli anni Ottanta d’un Novecento tanto lontano da parere preistoria, basta «usare l’antimafia come strumento di potere: ieri c’erano vantaggi a ignorare che la mafia esistesse. Oggi ci sono vantaggi a proclamare che esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi».
Aveva ragione lui. Trent’anni dopo, in Italia, la lotta alle mafie continuano a farla i professionisti dell’antimafia. Bravi a dispensar patenti di legalità, a fare e disfare governi con un titolo di giornale, a sfornare sentenze senza aver mai aperto un codice, neppure quello della strada. Gli unici, insomma, capaci di lucrare persino su picciotti e lupare.