Quel Mussolini chiuso negli scantinati della storia
Per 70 anni e più l’hanno tenuto in uno scantinato. Faceva paura, come fa paura all’Italia fare i conti con la storia. E per questo l’hanno segregato.
Qualche giorno fa dagli archivi sotterranei del palazzo della Provincia di Potenza è saltato fuori il busto bronzeo raffigurante Benito Mussolini, realizzato in occasione della visita del Duce in città il 27 agosto del 1936. Poco più in là, mancante di qualche pezzo ormai perduto e finito chissà dove, giaceva la targa di marmo sulla quale erano state incise le parole del discorso (breve) pronunciato nell’occasione. Una prigionia surreale: in genere, le vestigia del passato diventano memoria di popolo, ancor più quando legate a periodi storici travagliati e insanguinati, perché fungano in tal caso da monito perenne. Qui da noi no. Le cose vanno diversamente. Ed alla storicizzazione si preferisce la rimozione tout court.
Nessuna meraviglia, allora, che una scultura venga condannata all’oblìo e rinchiusa nelle segrete. E’ la debolezza di una nazione che si rifiuta di affrontare, con spirito critico, il suo passato. Che non riesce ad elaborare una memoria democratica di un tempo che, per quanto ingombrante, non può essere cancellato. Che sceglie consapevolmente di alimentare la dicotomia tra oscuramento e nostalgia pur di tenere lontana la verità storica.
A chi giova? Ai costruttori di muri: quelli che hanno bisogno di nostalgici da avversare per giustificare l’esistenza di miti (i propri) da alimentare. Il che non è un bene neppure per la Resistenza, vittima di un celebrativismo che ne ha imbalsamato l’eredità morale e politica. Un paradosso tra i tanti, in un Paese dove il termine “fascista” è ormai solo un insulto ma in cui non passa giorno senza che vengano organizzati convegni e mostre su vicende, protagonisti e correnti culturali del Ventennio. Non sfuggono alla trappola neppure i virgulti di classe dirigente venuti su dopo la fine della guerra fredda: a Predappio, il sindaco (con tessera Pd) ha proposto l’istituzione di un museo del fascismo, spinto – più che altro – da ragioni di promozione turistica e dunque dall’intento di far cassa. A Potenza, invece, il presidente dell’amministrazione provinciale, pure lui del Pd, una volta rimessi meritoriamente in libertà i fascistissimi e perciò pericolosissimi cimeli classe 1936 ha subito dettato alle agenzie di stampa le condizioni della liberazione: «L’opera di recupero ed esposizione dei reperti non vuole in alcun modo cancellare o modificare la storia e le epocali responsabilità del fascismo e di Mussolini». Già, ma quale storia?