La Sicilia paga i mafiosi: serve ancora l’antimafia?
Non hanno bisogno di imporre il pizzo. Di dar fuoco a qualcosa se qualcuno si rifiuta di pagare. Neppure gli serve spacciare droga, o brigare per aggiustare una gara d’appalto. Nulla di tutto ciò: agli amici degli amici lo stipendio arriva direttamente a casa. Mese dopo mese puntualmente. Pulito, senza neanche il fastidio di doversi mettere in coda per ritirarlo.
In Sicilia, la patria della mafia e per riflesso storico anche dell’antimafia, sono i siciliani che pagano le tasse a mantenere i mafiosi. Quelli che a decine lavorano per la Regione. È stata proprio un’inchiesta amministrativa svolta dagli uffici regionali su ordine del presidentissimo Crocetta (lesto nelle indagini, un po’ meno nei provvedimenti consequenziali) a svelare l’arcano, accendendo i riflettori, in particolare, sui 25.000 addetti alla forestazione. Di essi ben 3.500 avrebbero sul groppone condanne penali: in 1.000 per reati contro il patrimonio, in 600 per lesioni personali e omicidi più o meno colposi, in 200 per fatti consumati a danno della pubblica amministrazione. E se non mancano – tra coloro i quali i fuochi dovrebbe spegnerli – i condannati per incendio doloso, in fondo all’elenco spuntano anche loro, i mafiosi: una cinquantina di persone mandate alla sbarra per 416 bis e tornate a lavorare come nulla fosse una volta scontata la pena.
Tutto normale? A quanto pare, sì. A riprova del fallimento dell’antimafia fatta professione. Quella che urla, strepita, s’indigna, manifesta e poi lascia le cose come stanno. Che resta sempre uguale a se stessa mentre la mafia si trasforma. «Ha ancora senso l’antimafia, per come è oggi? Ha avuto grandi meriti, ma a un certo punto è accaduto qualcosa. Si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato», scrive il sicilianissimo giornalista Giacomo Di Girolamo nel suo recente libro, “Contro l’antimafia”. E aggiunge: «In un circuito autoreferenziale che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti».
In fondo, perché tutto rimanga com’è, è necessario che tutto cambi, ammoniva cinico il principe di Salina, sospeso tra lucida realtà e invincibile rassegnazione. Ed in Sicilia (e non solo) i fatti gli danno ragione. A cosa è servita l’antimafia? Di certo, non a licenziare i mafiosi. Che stanno sempre lì. Col posto fisso, a riscuotere puntualmente lo stipendio. Alla faccia dei fessi.