Ridate a Pantani il Giro del ’99
Ridate a Pantani il Giro del 1999. Lo chiedono gli sportivi di ogni parte dello Stivale. E non è una disputa da bar dello sport, una lite su arbitri venduti e scudetti di cartone.
C’è molto di più nella battaglia che lontano dai riflettori dei media che contano si combatte nel Belpaese distratto dagli schizzi di petrolio, dalla disoccupazione che risale, dalla speranza che si vede e non s’agguanta. C’è il senso di un’Italia che da quando è finita anche l’ultima delle guerre mondiali è cresciuta a stragi e depistaggi, inchieste eterne e bugie un tanto al chilo.
In questo mare galleggia che sono ormai tre lustri e più anche la storia del Pirata di Romagna. Uno squalo da sellino, che in salita azzannava amici e rivali e non faceva prigionieri come non ne fa uno squalo. Saliva, il Panta, in quella primavera del ’99, verso la maglia rosa. Alle spalle stagioni sfortunate. Ma dopo la scarogna e i gatti neri da costiera, sulle Alpi sembrava potesse tornare a splendere il sole. Pedalava forte. Ed a Borgo San Dalmazzo Marco piè veloce si prese la testa del Giro. E l’indomani mise al sicuro il trionfo, sfrecciando a mille davanti al santuario di Oropa: lui fulmine, gli altri lento pede. E così ancora sull’Alpe di Pampeago e a Madonna di Campiglio, nomi sacri per gli adoratori delle due ruote. Poi la disfatta e la caduta nella polvere: i medici, l’ematocrito impazzito, la squadra che segue il capitano, il ritiro, il tunnel. L’inizio della fine. Senza che nessuno fosse capace, non allora e neppure dopo, di accendere una luce che non fosse un lumino davanti ad una lapide.
Ad oggi molti lutti sono passati, e quella vicenda resta un mistero italiano. Senza bombe a mieter vite né treni o aerei a sventrare, ma come tutti i misteri d’Italia privi di soluzione. Già Renato Vallanzasca, uno che di presentazioni non ha bisogno, s’era lasciato sfuggire in carcere, mentre lo intercettavano, che il Pantani quel Giro lì non avrebbe mai potuto vincerlo. «Un camorrista mi aveva consigliato sin dalle prime tappe di puntare tutti i soldi che avevo sulla vittoria dei rivali di Pantani», ragionava il bel Renè, ripescando la frase sillabatagli dal suo interlocutore: «Il pelatino a Milano non arriva. Fìdati». E un altro camorrista, stavolta al calduccio di casa sua, alle cimici ha confidato che il test, quello dell’ematocrito al 51,9%, era stato manomesso. Cinque volte sì a conferma del tradimento in provetta: a Pietro di no ne erano bastati tre per rinnegare Cristo.
Eppure, quasi vent’anni dopo, una verità ancora non c’è. Le Procure indagano. Forse un giorno qualcuno, in un’aula di Tribunale, riscriverà la storia. Ma quella di Pantani è una storia che non ha bisogno di altra vana attesa per essere riscritta. E onorata. Mamma Tonina lo sostiene da sempre. Lo ha ripetuto anche un paio di settimane fa: «Non mi accontento. Ho saputo una cosa che immaginavo». Nel Paese degli smemorati, tutti hanno dimenticato. Ma prima che altro tempo passi invano, qualcosa si può fare. Anche fuori dai Tribunali. E va fatta, perché è quel che più conta: restituire onore e dignità a Pantani Marco da Cesenatico. «Quel Giro meritava un’altra fine, meritava la fine vera: la vittoria di Pantani», mastica amaro l’avvocato dei Pantani, Antonio De Rensis. Come lui tantissimi. Ad esempio le migliaia di persone che prima di Pasqua hanno risposto all’appello lanciato dai colli di Cassano all’Jonio – profonda Calabria – da un giovane appassionato di ciclismo, Luca Rango, scrivendo una dopo l’altra, in fila come formichine ordinate, il proprio nome in calce alla petizione lanciata sul web (la trovate qui: https://www.change.org/p/assegnazione-del-giro-d-italia-1999-a-marco-pantani#petition-letter). Una firma per invitare il presidente della Repubblica ed il capo del Governo, il presidente della FCI ed a quello del Coni, a voler rimediare ad un torto. A restituire a Pantani ciò che sin qui gli è stato negato.
In 10.500 hanno già firmato, in neppure dieci giorni. Trovassero occasione nelle loro impegnate giornate, lor signori, per degnarsi d’una risposta, magari intingendola anche in po’ di sano coraggio, renderebbero merito non solo – e non tanto – ad una madre che non s’arrende, ma ad un’Italia che i suoi figli migliori è capace solo di prenderli a calci nel sedere e gettarli nel fango.
Non servirà a far giustizia né ad ottenere perdono, ma assegnare a Pantani il Giro del ’99 non è più una scelta: ormai, è un obbligo. Un debito da pagare. Un battito del cuore. Un colpo di pedale sulla strada della verità.