Marty McFly non torna più al futuro
È tempo. È tempo di prendere coscienza che la morte arriverà anche per noi. Che l’eternità non ci appartiene. Che il “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” non è solo una poesia o la filosofia della riforma Fornero, ma una condizione di vita. È tempo di amari calici per noi fanciulli tra i quaranta e i cinquanta che non abbiamo conosciuto neppure l’odore acre della guerra, la morsa della fame, lo stento come ipotesi sia pur remota dell’orizzonte quotidiano. I nostri nonni al fronte sotto le bombe, i padri a trainare il boom, noi a scialare. Chi più chi meno, a seconda del denaro in saccoccia, tutti inseguendo il sogno della griffe, il fascino dell’America, il mito del progresso. Erano gli anni ’80 o giù di lì. In faccia i primi peli di barba, addosso già i Moncler, a correre dietro alle sfitinzie cantando Wild boys, manco le Timba fossero ali di guerriero. Pensavamo di essere sempre un po’ più in là, che nulla ci avrebbe fermato, che alla peggio mamma e papà ci avrebbero tolto da impicci e impacci.
Era un’idea, è diventato il pensiero di una generazione, quella figlia degli anni Settanta. Chi è venuto dopo ha cambiato moda, non pensiero. Abbiamo studiato e appeso lauree e foto vip alle pareti di casa, con Fb da ultimo ci siamo fatti la nostra televisione personale e trasmettiamo vanità anche dalla tazza del cesso, ma non siamo mai davvero diventati adulti dentro. E quando dolore e sofferenza bussano alle nostre porte, ci asserragliamo muti come se quelle fossero piazzisti scoccianti: zitti e buoni, tanto prima o poi se ne vanno. Al contrario, a volte, sempre più spesso, restano. E ci stringono d’assedio, mentre noi impauriti non sappiamo che fare. Michael J. Fox, che con la DeLorean tornava al futuro, sta perdendo la sua battaglia con il Parkinson, ci raccontano i quotidiani del giorno. E se neppure Marty McFly è eterno, davvero non c’è più nulla da fare. Nemmeno noi torneremo indietro. A meno che non si scelga, finalmente, di imparare a vivere. Scriveva un mio amico quasi cinquantenne sul suo profilo facebook d’essere andato a far visita a dei malati di cancro in un centro di cure palliative e d’esserne uscito in lacrime, ma con la convinzione che solo nel contatto con il male non si perda di vista la realtà e si finisca invece con il dare un senso all’esistenza, una misura alle azioni, addirittura una ragione alla fede.
Già. Ma come lo spieghi alle gente (e prima ancora a te stesso) che per poter vivere bene bisogna prima imparare a morire?