C’è un giudice a Roma. Ha stabilito che la legge vale per tutti. Anche per gli stranieri.

La Cassazione ha cancellato il patteggiamento col quale in primo grado un bengalese residente nel Padovano aveva concordato una pena (ovviamente sospesa con la condizionale) a 22 mesi di carcere per aver lasciato che la figlia quindicenne fosse costretta a soddisfare le voglie dell’anziano marito, un connazionale di molto più anziano di lei sposato in Bangladesh nel 2012, per volontà esclusiva della famiglia. Una storia di pura violenza venuta a galla quando, una volta trasferitasi in Veneto con i genitori e lo sposo bavoso, la fanciulla aveva trovato il coraggio di confidarsi con un’insegnante. Dopo le indagini, il patteggiamento. Col Gup di manica larga poiché convinto – come scritto nel provvedimento ora cassato – che il padre non volesse «abbandonare la figliola alla condotta violenta dello sposo», ma ritenesse gli abusi normali, «espressione di una modalità maltrattante che trova le sue radici nella formazione culturale».948821

Un’assurdità, secondo gli ermellini. Già più volte intervenuti – con scarso successo – per provare a estirpare dai giardini giurisprudenziali delle corti minori la malapianta del perdonismo buonista, alla quale s’aggrappano ad esempio le madri rom che costringono i figli all’accattonaggio. Assolte (da Palermo a Bologna a Torino) perché spinte, si legge in diverse pronunce, «da una motivazione culturale idonea a elidere la volontà di violenza nei riguardi della vittima» e dal fatto che «la questua fa parte della tradizione culturale del gruppo etnico di appartenenza».

Argomentazioni risibili, per la Suprema Corte. Che nel verdetto reso dalla Terza sezione penale a proposito della vicenda padovan-bengalese afferma: «Quel che maggiormente sorprende è la patente di subcultura attribuita dal giudice all’imputato per escluderne il coinvolgimento nella deliberata e colpevole tolleranza nei riguardi del genero per le condotte abusanti in danno della figlia con loro convivente», nell’ambito di «un clima di sopraffazione sessuale dettato dalla convinzione che per effetto del matrimonio, e del pregresso fidanzamento organizzato dal padre, tutto fosse consentito al genero, nel segno di un dominio assoluto da esercitare sulla ragazzina». Insomma, «ritenere che il genitore, solo per effetto di una particolare – e comunque non condivisibile – biasimevole formazione culturale che urta contro le coscienze e non può trovare giustificazione, avesse il diritto di imporre alla figlia di ubbidire ai voleri del genero, è una banalità che non può trovare ingresso nel nostro sistema giuridico».

Patteggiamento annullato. Dei suoi reati il signore (si fa per dire) venuto dal Bangladesh dovrà rispondere a processo. Lasciando a casa, stavolta, la falsa patente dell’immunità culturale.

Ps: sarebbe il caso che la sentenza della Cassazione fosse portata a conoscenza di quanti – in politica e più in generale sul piano culturale – ritengono che l’invocare e pretendere il rispetto della legge quando alla sbarra finiscono gli stranieri sia esercizio di razzismo. Al contrario, a quanto pare, è esercizio di principi costituzionali.

 

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