Baby delinquenti? Stop al perdonismo
Ormai è un bollettino di guerra. Agli inizi di settembre dalle parti di Reggio Calabria nove minorenni arrestati per violenza di gruppo su una tredicenne. Qualche giorno fa, a Napoli, un quattordicenne ha accoltellato il compagno di scuola. Gli stava antipatico. Nelle stesse ore a San Severo, nel Foggiano, un ragazzo di 16 anni sparava ad un coetaneo, uccidendolo. Ed oggi a Bari i carabinieri hanno fermato uno sbarbatello che di anni invece ne ha 17 e se ne andava in giro per la città con un revolver calibro 38. Qualche esempio, solo per dire. «La situazione è di disarmante evidenza: la scuola è una cattedrale nel deserto e le famiglie sono sempre più assenti», sentenzia Pietro Avallone, il giudice minorile sulla cui scrivania è finito il fascicolo dei fatti napoletani.
Analisi facile, molto vicina alla verità. Che però ripropone un problema ancora senza risposta: di fronte a criminali – spesso assassini – sempre più spesso minorenni, è giusto continuare a mostrarsi tolleranti? Dal 1934, con la nascita dei Tribunali dei minori, sono scomparse le vecchie case di correzione. Nel tempo, poi, l’idea prevalente è diventata quella del recupero. Della rieducazione: al giovane che sbaglia offrire tutte le possibilità per un possibile reinserimento. Ma il sistema del welfare ha fatto flop, quello della giustizia è in crisi perenne e le famiglie latitano. I clan allora ne approfittano. E navigando da pirati nel mare magnum del perdonismo, armano proprio i più piccoli. Non solo spacciatori di droga, ma anche sicari pronti a tutti per un telefonino e anche meno. Chi non li vede per strada, nelle piazze, nel buio dei vicoli? Solo i ciechi, ormai.
Una risposta serve, è chiaro. E non può essere quella di Michele Santoro, che a questi campioni ha regalato la vetrina della Mostra del cinema di Venezia. Nel mentre insieme ai suoi compari capeggiava la rivolta nel carcere minorile di Airola, in provincia di Benevento (allo spaccio erano finite le sigarette!), Mariano A. impartiva lezioni di vita nel corto firmato dal Santoro regista: «Le guardie? Se sei in moto non riescono a fermarti e comunque si bloccano già quando vedono u’ kalash. Lo sanno che gli spariamo addosso. Pensano: per 1.500 euro devo rischiare la vita? E si fermano». Dalla produzione facevano sapere che la scelta di dare spazio alle stelle della paranza dei bimbi intendeva «aprire una finestra sul ruolo del carcere e su quello che esso rappresenta per questi ragazzi: il problema non è solo di pena, di sicurezza, di numero di agenti penitenziari, ma è soprattutto una questione di recupero».
Intanto, di sicuro, ne hanno fatto dei modelli. Peccato siano cattivi modelli. Quelli da evitare. Quelli che quando a 16 anni impugnano una pistola e sparano, o violentano una ragazza, poi tornano da mamma e papà e trovano sostegno e protezione. Ed uno Stato che li tutela per la loro età. Idea nobile. Ma se il bimbo ucciso o la fanciulla stuprata fossero figli vostri, sareste capaci di capire, sopportare e continuare a pagare le tasse per mantenere i loro giovani carnefici in una casa famiglia, in attesa di rieducazione?