Lasciateci almeno l’ora di religione
Abolite l’ora di religione. Così com’è non serve. Cambiatela e trasformatela in educazione religiosa, coinvolgendo gli islamici.
Lo dicono da sempre atei e laici laicisti. Lo sostiene adesso, sia pur con sfumature più dolci, anche un pezzo di Chiesa ufficiale. E ciò induce ad un supplemento di riflessione.
La proposta è saltata fuori a Bologna, ad un convegno della Cisl. A farsene interprete un sacerdote, don Raffaele Buono. Non uno qualunque, visto il ruolo di delegato per l’insegnamento della religione cattolica ricoperto per conto della Conferenza episcopale dell’Emilia Romagna. Secondo il parroco bolognese, sarebbe giunto il momento di finirla con l’ora di religione cattolica. Da trasformare, a suo parere, in insegnamento non più riservato alla conoscenza e diffusione del cattolicesimo, bensì «al tema globale dell’approccio religioso alla vita, da parte dei cristiani, degli islamici e anche degli atei». Insomma, ha sparigliato don Buono, «apriamo l’ora di religione a tutti, facendo capire ai migranti di altre religioni che non arrivano in un luogo che è tabula rasa».
Col dovuto rispetto per la talare ed il principio della pluralità delle idee, pare di ritornare a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando in Francia fu disposto per legge l’esilio del cattolicesimo dalla vita pubblica: nel giro di un quarto di secolo si susseguirono l’obbligo del servizio militare per i seminaristi, l’annullamento del carattere confessionale dei cimiteri, la dichiarazione della laicità assoluta dell’insegnamento nelle scuole, fino ad arrivare alla soppressione delle preghiere pubbliche, alla repressione delle congregazioni religiose e, nel 1905, alla definitiva, radicale, completa separazione dallo Stato della Chiesa, ridotta al rango di società privata.
Dunque, come già prima nei secoli, oggi sembra di risentire l’eco dei passi che portarono alla marginalizzazione di Cristo dalla vita pubblica, fino a farne questione intima, come del resto dettava qualche tempo fa in Italia Paolo Flores D’Arcais: «La religione è compatibile con la democrazia solo se disponibile e assuefatta all’esilio di Dio dalle vicende e dai conflitti della cittadinanza solo se pronta a praticare il primo comandamento della sovranità repubblicana: non pronunciare il nome di Dio in luogo pubblico».
Un argomentare siffatto, per quanto legittimo, appare francamente aberrante. Sia perché paradossalmente ispirato alla negazione di quella libertà che si pretende di ricercare e si finisce per imporre, sia perchè per la Chiesa vi è spazio nell’agorà, come dimostrano le esperienze maturate dopo la cacciata di Cristo da scuole e piazze. Non a caso anche diversi studiosi, e tra essi l’americano Thomas Farr, vanno ripetendo che i guai dell’Occidente secolarizzato siano da ricondursi alla deliberata e incomprensibile scelta di rinunciare a quella che invece è linfa vitale della vita democratica di una nazione. Pure per questo, assurdo suona che, più o meno involontariamente, ai processi di marginalizzazione presti il fianco la stessa Chiesa, forse nella convinzione di ritrovare centralità attraverso l’accantonamento di pezzi di identità considerati troppo antichi per sopravvivere al presente che avanza impetuoso e ansiosa di mostrarsi accogliente di fronte ai devoti di altre fedi che nemmeno ammettono, nelle terre di provenienza, il principio della reciprocità ed anzi – se non tutti in parte – non nascondono il desiderio di una colonizzazione religiosa forzata dei luoghi di nuovo insediamento.
Magari ha ragione chi sostiene questa tesi, e chi non lo comprende e non s’adegua – ed io tra costoro, lo confesso – è solo uno in ritardo con la storia ed il futuro. Ma volendo adottare questi termini di ragionamento, senza arrivare a scomodare la coerenza non può non desumersene una conseguenza logica: se l’ora di religione deve trasformarsi in educazione al sentimento civico religioso, che lo Stato allora faccia a meno della moltitudine di insegnanti di religione cattolica, o per lo meno li scelga per concorso pubblico, pure tra gli islamici. E magari, visto che c’è, dia una sforbiciata ancheall’8 per mille: se il paradigma del progressismo è l’abbraccio universale di Cristo, ben si può fare a meno del denaro, del quale il Messia aveva un concetto preciso e universalmente noto, per quanto ignorato. Molte volte anche in ambito ecclesiale.
Si è capito: fosse per me, che prete non sono ma in compenso sono peccatore, e pure di buona qualità, lavorerei per una Chiesa orgogliosa e ferma nella difesa della propria identità, certo pronta al dialogo ed all’interazione-integrazione religiosa, ma soprattutto pulita dentro, senza pedofili né affaristi, capace di puntare sulla formazione dei suoi giovani preti, sulla trasparenza ed efficienza della gestione delle risorse umane ed economiche, e di spalancare le sue porte anche ai laici. Non per farne comproprietari di parrocchie e basiliche, ma lievito e sale, nello spirito in larga parte ancora ignorato del Concilio Vaticano II.
Aspirazioni forse superate, perché magari già realizzate sebbene non visibili a tutti, mentre non manca chi ripensa alle parole di Pier Paolo Pasolini: professarsi laici, liberali, a volte necessariamente avanguardisti, «non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi ad un mondo solo apparentemente funzionante, con le sue leggi allettanti e crudeli».